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Giovedì, 12 Settembre 2024

CULTURA KROTONESE

Nascita, affermazione e superamento dell'esperienza cittadina dei Greci attraverso il mito e le vicende di Crotone

Posted On Martedì, 09 Dicembre 2014 22:18 Scritto da
Targa dello scultore Graziani raffigurante Pitagora ed Alcmeone Targa dello scultore Graziani raffigurante Pitagora ed Alcmeone

Kroton la città di Apollo prima che di Miscello, Pitagora, Domocede, Alcmeone, Filolao, Milone...

PREMESSA.
Di Crotone, la città che gli Achei fondarono circa duemila settecento anni fa, rimangono oggi alcuni ruderi, che già nel passato erano meta di viaggiatori ed escursionisti che subivano il fascino del mondo dei Greci ormai tramontato. Tale suggestione non rappresenta la ragione di questo lavoro. La scelta di realizzarlo dipende dall'idea di ripercorrere, fin dalle sue origini, la particolare esperienza sociale della "città greca", con la consapevolezza che seppure essa appartenga ad una realtà che sembra perdersi nella notte dei tempi, segna la nascita e l'affermazione della civiltà occidentale, di quella cultura che è la radice principale e più antica del mondo nel quale noi oggi viviamo. La scelta di compiere questo percorso attraverso il mito non è casuale, ma deriva dal fatto che attraverso questo strumento di rappresentazione, i Greci ci hanno tramandato la testimonianza di un'epoca che diversamente non sarebbe possibile decifrare. Parlare degli eroi greci e delle loro fantastiche imprese, non rappresenta dunque uno sterile viaggio nel mondo di Biancaneve e dei sette nani, ma agli albori di quella cultura che, da un punto di vista sociale, ci ha condotti ad essere gli uomini che siamo. In questo senso, le vicende di Crotone offrono l'opportunità di compiere un viaggio completo in quest'esperienza e di apprezzarne tutti i passaggi cardine. Lo scopo è quello di usare tal esperienza nella costruzione di una coscienza e nella ricerca di una morale: una opportunità alla portata di ciascuno di noi, visto la semplicità dei riferimenti ed il tipo di eredità culturale che possediamo. Ciò risulta più arduo per i contesti storici successivi, non tanto perché in essi cominciano a diluirsi i riferimenti originari, quanto perché questi ultimi sono giornalmente saccheggiati, rendendo un'analisi obiettiva più difficile ed a volte pressoché impossibile. Da tale situazione non sono al riparo certamente i Greci, che se comunque si ha il coraggio di guardare per quello che furono, permettono di conoscere una realtà che ha molto da insegnare, perché - all'interno dell'universo occidentale o occidentalizzato - essa appare valida a prescindere dal fatto storico e rappresenta un patrimonio nel quale è possibile riconoscersi superando le divisioni etniche e le prerogative di appartenenza nazionale.

 

INTRODUZIONE
La storia antica è spesso poco comprensibile per chi si avvicina a letture di questo tipo in maniera occasionale, in particolare quando l'obiettivo stringe su singoli aspetti come quelli che ci accingiamo a trattare. Tenendo conto di ciò, questo lavoro è stato organizzato in maniera da fornire, accanto ad una esposizione che spero puntuale, una lettura che tenga conto di tale esigenza. Il periodo storico trattato riguarda la vita di Crotone come città greca e per tale motivo, comprende l'arco di tempo che va dalla sua fondazione (seconda metà del sec. VIII a.C.), alla data che segna la fine della sua sopravvivenza come stato indipendente (fine del sec. III a.C.). Tale analisi ha comunque bisogno di essere compresa anche alla luce di una serie di fatti precedenti e per tale motivo, anche se in maniera sintetica, gli avvenimenti saranno scorsi a partire dagli inizi del II millennio a.C. con l'intento di fornire le necessarie premesse. La ricostruzione proposta si basa quasi essenzialmente sull'analisi di un corposo bagaglio di fonti letterarie di diverso tipo che, in alcuni casi, si dimostra insufficiente ponendo alcuni problemi di interpretazione. Ciò dipende comunque più dalla naturale difficoltà di comprendere un certo modello di rappresentazione, che da un'effettiva grave lacuna delle notizie. A ben vedere, infatti, seppure sicuramente una cospicua parte delle notizie storiche riguardanti Crotone sia stata persa durante i secoli, possiamo fondatamente ritenere che quanto rimasto rappresenti almeno un sunto dei principali avvenimenti che la videro protagonista. Ciò risulta maggiormente evidente se si guarda alla storia della città nel suo complesso e se ci si accontenta di sorvolare su molti particolari, alcuni dei quali, comunque, possono essere recuperati da ciò che in ogni caso sappiamo da situazioni simili o da quello che ci proviene dalle cospicue informazioni che la civiltà dei Greci, studiata in tanti luoghi del Mediterraneo, ci fornisce a piene mani.

Ringraziamenti.
Desidero ringraziare A. Pesavento per la lunga ed intensa attività nel campo della ricerca storica che tanto mi è stata utile e per la disponibilità sempre dimostratami, S. Amoruso che ha pazientemente corretto le bozze e G. Crugliano con il quale ho condiviso il lungo percorso sfociato in questo lavoro.

 

capitolo primo

Le origini.
L'arrivo degli Achei e la conseguente fondazione della Città, rappresentano gli avvenimenti ai quali si attribuisce, convenzionalmente, l'avvio delle vicende storiche di Crotone. Ciò non significa che sia mancata una storia precedente, né che questa sia stata meno importante. Anzi, possiamo dire che il periodo che precede quest'inizio ufficiale della storia, costituisce un antefatto la cui conoscenza è fondamentale per comprendere le vicende successive. Bisogna però subito evidenziare che le notizie in nostro possesso, non ci permettono di tracciare un quadro esauriente. Ciò dipende dalla difficoltà di risalire ad un'epoca così remota e dal fatto che tali notizie ci provengono dagli stessi Greci e costituiscono una verità unilaterale ampiamente deformata. Questi ultimi si preoccuparono poco di soffermarsi sulla storia dei barbari (questa indicazione generica era utilizzata dai Greci nei confronti di tutti di quelli che non erano della loro razza), mentre, in molti casi, crearono una serie di tradizioni tese ad evidenziare nei loro confronti qualche antico legame di sangue. Come fa notare B. d'Agostino[1], le tradizioni leggendarie che attribuiscono ai barbari una lontana ascendenza greca, non costituiscono una realtà storica, ma rappresentano il tentativo dei Greci, dopo la fondazione della città, di ricostruire le vicende del territorio in una prospettiva che li contemplasse. Con lo scopo, in questo caso, di legittimare la loro presenza, di stabilire un ordine alla nuova realtà e di realizzare con essa dei punti di contatto che, in definitiva, consentissero di assimilarla. Tali leggende non ci permettono di venire a conoscenza della vera storia dei barbari, ma le importanti implicazioni in esse contenute, ci consentono di chiarire alcuni aspetti della realtà che i coloni incontrarono al momento del loro arrivo in Italia, e ci forniscono una esemplificazione delle vicende accadute durante le fasi precedenti. Per comprendere tale contesto, serve distinguere ciò che è pertinente al momento della fondazione della città o a periodi che precedono questo avvenimento più da vicino, e cosa invece si riferisce alle epoche più remote.

 

L'età del Bronzo.
La ricostruzione operata dalla tradizione greca assegna agli Ausoni il popolamento originario del territorio di Crotone[2], come del resto quello di vaste aree dell'Italia centro meridionale, dove la loro storia leggendaria può essere riferita alla civiltà del bronzo. Si tratta, in particolare, di aree poste sul versante tirrenico della penisola, come sottolineano gli storici antichi[3], quando affermano che il mar Tirreno, prima di chiamarsi tale in conseguenza del dominio degli Etruschi (i Tirreni), si chiamava Ausonio per il fatto di essere dominato dagli Ausoni. La loro prevalente dislocazione tirrenica non implica, trattandosi di una generalizzazione, che gli Ausoni abbiano abitato anche zone diverse. Ciò appare distintamente nel caso di Crotone, dove tale presenza è da ritenersi comprensibile, alla luce della facilità di collegamento con la costa tirrenica in corrispondenza dell'istmo di Catanzaro che, secondo Aristotele[4], poteva essere percorso in solo mezza giornata di cammino. La possibilità di collegamento con il Tirreno è poi sottolineata dalla presenza di un altro importante asse viario, che rimane individuato dalle vallate del Neto e del Savuto. Esso consentiva l'attraversamento della dorsale montuosa silana, offrendo una serie di opportunità, che furono sfruttate anche in seguito dalla Città e furono determinanti per il suo sviluppo[5]. Accanto agli Ausoni, l'altro popolo che durante l'età del bronzo avrebbe abitato larga parte dell'Italia, compreso il territorio di Crotone, è quello degli Enotri che però, a differenza dei primi, sembrano assumere un'importanza tutta particolare. Ciò dipende dal fatto che ad essi viene attribuita non solo un'origine greca, ma anche la prima migrazione in Italia proveniente dalla Grecia[6]. La notizia apre a questo punto un nuovo scenario che, nel tentativo di seguire le vicende precedenti alla nascita della città, ci porterà a scorrere gli avvenimenti che interessarono diversi altri protagonisti di quei secoli così lontani. L'argomento merita un approfondimento, dato che in questo filone leggendario, i Greci, accanto a scampoli della storia dei popoli con i quali entrarono in contatto, fecero confluire due cose: alcune delle vicende più remote legate alle loro origini ed una serie di fatti relativi ai contatti che essi stabilirono con il territorio, sia durante la fase coloniale che in epoche più antiche.

 

I primi contatti.
La tradizione che attribuisce agli Enotri una migrazione precedente quella che effettivamente si realizzò in epoca storica, rappresenta ciò che in genere si definisce come "colonizzazione leggendaria". Tale definizione, nasce dal fatto che di questi avvenimenti non ci sono rimaste testimonianze oggettive, ma solo alcune leggende, alle quali si è cercato di trovare i necessari riscontri. Da questo punto di vista, quella degli Enotri offre alcuni riferimenti interessanti. Il primo è che la data del loro arrivo in Italia, 17 generazioni prima della guerra di Troia (sec. XVIII – XVII a.C.), sembra coincidere con l'arrivo in Grecia di un'ondata migratoria proveniente dai Balcani e dall'Anatolia. In questo caso, secondo un rapporto di causa effetto, la migrazione degli Enotri verso l'Italia, potrebbe essere ritenuta una conseguenza di tale avvenimento. L'aspetto che però rende più interessante la leggenda degli Enotri è quello legato alla loro origine. La tradizione riferita da Dionigi di Alicarnasso, seguendo uno schema consueto, tramanda l'origine degli Enotri da Enotro, un capostipite che avrebbe dato il proprio nome alla sua discendenza (capostipite eponimo). Enotro è presentato come figlio di Licaone, figlio di Pelasgo che a sua volta discendeva da Foroneo, addirittura il primo mitico re del Peloponneso. Questa genealogia, a prescindere dai personaggi fantasiosi che menziona, indica per gli Enotri un'origine legata alla stirpe dei Pelasgi, una mitica popolazione che si sarebbe diffusa in diverse aree della Grecia e dell'Egeo, alla quale gli storici antichi attribuivano una remota colonizzazione dell'Italia e che, per quanto ci riguarda più da vicino, la tradizione mette in relazione all'origine dei coloni che fondarono Crotone.

 

I leggendari Pelasgi.
Il fatto che la tradizione ricorra ad un riferimento tanto remoto e apparentemente poco decifrabile, non deve indurre a sottovalutarne la portata, perché da esso possono essere tratte considerazioni importanti. La prima è che i Pelasgi sembrano rappresentare un punto di riferimento, un orizzonte originario, dal quale non solo sarebbe nata la civiltà greca, ma anche quella di vaste parti dell'Italia, come nel caso degli Enotri. Quest'origine pelasgica non sembra però aver riguardato tutti i Greci ma solo alcuni di essi. Al proposito, Erodoto traccia una netta differenziazione, tra gli Ateniesi di stirpe ionica e gli Spartani di stirpe dorica, attribuendo ai primi un'origine pelasgica ed ai secondi una origine greca[7]. Ciò comunque non deve creare confusione sui soggetti che abbiamo di fronte. Nell'uso comune, noi oggi siamo abituati a chiamare Greci, tanto gli attuali abitanti della penisola greca che i loro antichi predecessori, utilizzando il termine latino usato dai Romani con il quale essi designavano complessivamente gli Elleni. Quelli che noi definiamo i Greci, continuando a chiamarli come i Romani, o Elleni come essi si chiamavano nella loro lingua, costituirono una popolazione con caratteristiche comuni di civiltà, la cui formazione rappresenta il contributo di stirpi differenti, attraverso un processo che è avvenuto durante un lungo periodo e che trae origine molto indietro nel tempo. Per quanto detto, la situazione identificata dal mito dei Pelasgi è riferibile ad un'epoca in cui non esisteva ancora la civiltà greca, ma è relativa ad una fase precedente che possiamo chiamare pre greca. Essa può essere attribuita, in via generica, alle popolazioni che durante l'età del bronzo, abitavano la Grecia prima che si verificassero una serie di importanti migrazioni, che determinarono l'arrivo nel bacino mediterraneo delle popolazioni di razza indoeuropea. Con riferimento a questo quadro, Strabone si esprime citando i versi del prologo dell'Archelao di Euripide[8].
"Danao, padre di cinquanta figlie,
giunto ad Argo fondò la città di Inaco
e quelli che prima erano chiamati Pelasgi
stabilì che in tutta la Grecia fossero chiamati Danai."
Questo avvenimento, registrato dal mito dei Pelasgi o meglio dal superamento della loro fase originaria, costituisce un tassello fondamentale che la tradizione individua per ricostruire il percorso che porterà all'avvento della civiltà greca. La sua importanza, è sottolineata dal fatto che, sempre ricorrendo al riferimento remoto dei Pelasgi, i Greci ricostruirono anche l'evoluzione di altri popoli che incontrarono sul suolo italiano, ricalcando la storia di questi ultimi sui propri miti con gli intenti che abbiamo segnalato. Ciò non esclude, in ogni caso, gli antichi contatti che si stabilirono tra le coste greche e quelle italiane fin dalle epoche più remote. Essi servirono da aggancio ai miti greci, senza però costituire ancora una realtà capace di collegarsi direttamente alla colonizzazione storica. Tale collegamento dimostra invece di concretizzarsi durante l'epoca Micenea.

 

La civiltà Micenea degli Achei.
Abbiamo visto come il superamento del generico orizzonte originario pre greco identificato dai Pelasgi, avvenga nel mito attraverso un apporto esterno dovuto ad un'ondata migratoria. Queste migrazioni, storicamente rilevabili alla fine del III millennio, determinarono in Grecia la progressiva penetrazione degli Achei, un popolo proveniente dal nord il cui arrivo, assieme a quello di altri, s'inserisce nel generale movimento migratorio degli Arii (nome mitico che identifica le popolazioni di razza indoeuropea). Arrivati in Grecia, gli Achei svilupparono nel tempo la civiltà Micenea, costituendo una serie di regni (ad esempio Micene, Rodi, Argo) che tra i sec. XIV e XII a. C. raggiunsero l'apice della loro prosperità. A questi uomini fa riferimento Omero nell'Iliade, quando descrive la famosa conquista di Troia. Le imprese degli Achei, non furono comunque esclusivamente legate ad episodi di conquista. Per quanto ci riguarda più da vicino, essi ebbero una parte molto importante nel determinare una serie d'intense relazioni che coinvolsero il territorio italiano compreso quello di Crotone. Le ragioni di tale presenza sono da ricercare nella posizione strategica che il territorio crotonese rappresentava per la navigazione verso occidente. Posizione che, all'interno del contesto che trova gli uomini della civiltà del bronzo impegnati nella ricerca e nel commercio delle materie prime del loro tempo, determinerà da qui in avanti un preciso indirizzo delle vicende del territorio. Come appare oramai naturale, di tale contesto non ci rimane un resoconto storico, ma un patrimonio leggendario che in alcuni casi, come per i Micenei del regno di Rodi (i Rodii), fa esplicito riferimento ad una colonizzazione più antica di quella che successivamente porterà alla fondazione delle città. In questo caso, possiamo dire con sicurezza che le relazioni attivate dai marinai micenei lungo i percorsi della rotta occidentale, non portarono alla fondazione di città, ma determinarono la realizzazione di scali, presso i quali, possiamo immaginare che si svolgesse parte della loro vita dedita ai commerci. Tale constatazione nasce dal fatto che al tempo dei marinai micenei, le città non esistevano nei loro luoghi di origine. In patria, essi abitavano secondo un'organizzazione pre urbana che faceva riferimento alla reggia di un monarca. Tali insediamenti avevano un carattere diverso da quello di una città, intendendo con questo termine, il tipo di insediamento che successivamente realizzeranno i coloni. Per quanto riguarda invece questa fase, si trattava di gruppi di abitazioni dispersi su un territorio agricolo dominato dalla residenza - fortezza di un re, le cui prerogative possono essere immaginate attraverso le vicende che ci sono descritte dai poemi epici e che vedono protagonisti personaggi come Agamennone, Menelao o Achille. Tali notizie assumono invece una diversa valenza, dato che confermano che la colonizzazione greca fu in diversi casi preceduta da una serie di contatti d'età micenea. Di questi avvenimenti rimarranno significative testimonianze nei miti di fondazione della città, in ragione del fatto che essi saranno utilizzati dai coloni per ribadire, attraverso la tradizione, il loro legittimo diritto al possesso del territorio.

 

Il ritorno da Troia dei principi Achei.
Chiariti questi aspetti generali, possiamo affermare che le testimonianze letterarie pertinenti al momento, fanno riferimento alle vicende dei guerrieri Achei reduci da Troia che, nel nostro caso, riguardano in primo luogo Filottete. Gli aspetti salienti di questo mito attribuiscono all'eroe la fondazione di alcune città dei barbari e di un santuario di Apollo, mentre l'epilogo lo vede morire al fianco dei Rodii combattendo gli Ausoni. L'ambientazione, comunque, è in riferimento ad un'epoca nella quale non erano state ancora realizzate le città degli Achei. Filottete rappresenta solo un loro mitico antenato, le cui gesta furono successivamente inventate dai coloni per creare una tradizione che rendesse legittima la conquista del territorio e la fondazione delle città. Diciamo "delle città", in quanto il mito coinvolge un ampio territorio, che poi vedrà la nascita di Crotone e di Sibari e successivamente di Thuri. In questo senso, ciò esclude che ai Micenei possa essere fatta risalire la fondazione di una qualche città più antica, perché il mito interessa complessivamente quest'area e seppure ne tiene conto, non implica una suddivisione tra le diverse realtà cittadine. Se ne ricava che attraverso il mito di Filottete, i coloni tramandarono quella serie di avvenimenti che videro protagonisti gli Achei ed i barbari all'epoca della navigazione micenea, avvenimenti che, in particolare, mettono in risalto il ruolo dell'eroe quale fondatore di un gruppo di città abitate dai Choni. Questi ultimi sono ritenuti una popolazione affine agli Enotri, alla quale non solo la tradizione attribuisce una remota identità greca, ma con la quale, successivamente, sia i Sibariti che i Crotoniati, instaureranno un particolare rapporto di vicinato. Il coinvolgimento nel mito dei Choni e degli Ausoni, con l'intervento dell'eroe che si sarebbe manifestato in favore dei primi e contro i secondi, sottolinea che gli Achei si attribuirono il merito di una riorganizzazione del territorio che avvenne a scapito degli Ausoni. Tale ruolo, svolto emblematicamente da Filottete, lo qualifica chiaramente come un eroe precursore della civilizzazione del territorio (il fondatore delle città dei Choni) ed attraverso la sua origine, lo mette in diretta corrispondenza con i coloni Achei. In questo modo è possibile evidenziare che nelle leggende che servirono a rappresentare quella che sarà una situazione di fatto successiva, si inseriscono i ricordi di una serie di avvenimenti del passato che, da una parte, sono legati alle antiche origini dei coloni e, dall'altra, ai fatti connessi alla navigazione micenea.

 

Il mito delle sirene.
Accanto alle peregrinazioni di Filottete, un'altra leggenda che in riferimento all'età del bronzo, evidenzia la presenza dei marinai micenei nel territorio di Crotone è quella delle sirene. Nell'immaginario dei Greci ed a differenza di come invece le raffigureranno i marinai di epoche successive, esse erano uccelli con una testa femminile, capaci con il loro canto di ammaliare i naviganti, fino al punto da far loro perdere il controllo della nave fino al naufragio, come conosciamo dal famoso episodio che nell'Odissea ha per protagonista Ulisse. Il legame di questi esseri malvagi con la navigazione, la cui rappresentazione è possibile riferire proprio ai Rodii[9], è sottolineata dalla possibilità di rilevare la loro presenza in una serie di aree che corrispondono all'itinerario tirrenico praticato dai marinai micenei. Secondo il mito, infatti, le sirene non erano riuscite a provocare il naufragio di Ulisse (che si era premunito facendosi legare e turando con la cera le orecchie dei compagni) e si sarebbero date la morte precipitandosi in mare. A questo punto, i loro corpi sarebbero stati trasportate dalle onde fino a raggiungere le spiagge di Terina, Napoli e di punta Licosa presso Poseidonia. Seppure il mito non citi espressamente Crotone (e non potrebbe perché riferisce di una situazione precedente alla nascita della città), esso ha una serie di importanti connessioni con il suo territorio che si legano alla percorrenza di un itinerario che abbiamo già messo in luce nelle epoche precedenti. Al mito delle sirene è infatti collegata Terina, una città che la tradizione vorrà fondata dai Crotoniati sul Tirreno, della quale solo recentemente si è riusciti a determinare l'ubicazione. Senza entrare per adesso nella questione della sua fondazione, possiamo affermare che la citazione di Terina nel mito è in correlazione con la sua posizione strategica riguardo alle possibilità di comunicazione con la sponda ionica, che ne fa un nodo fondamentale per le possibilità di traffico lungo questa via. Considerate le connessioni tra questo mito e la navigazione dei Rodii e considerato quanto abbiamo potuto evidenziare a proposito del coinvolgimento di questi ultimi nel mito di Filottete, risulta una corrispondenza diretta tra le due aree che, d'altronde, è possibile costatare sia nelle fasi precedenti a questa che in quelle successive.


La leggenda degli Argonauti.
I soggetti e le vicende descritte sono evidenziabili anche attraverso il mito degli Argonauti, che riferendosi ad una generazione prima della guerra di Troia, racconta la spedizione che Giasone ed i suoi compagni intrapresero a bordo della nave Argo per andare alla ricerca del vello d'oro. Questa favola narra che gli Argonauti, partiti da Iolco in Tessaglia, raggiunsero la Colchide nel Mar Nero, dove impossessatisi del vello d'oro, avrebbero ripreso il ritorno, toccando diversi luoghi dell'Italia. Questa leggenda, che descrive un'avventura fantastica, contiene una serie di elementi ben più reali. Essa rievoca l'epopea dei navigatori micenei che, sfidando i pericoli della navigazione, solcavano le rotte del Mediterraneo per approvvigionarsi di metalli, il cui uso caratterizza la fase che stiamo trattando. Tale situazione è evidenziata dal coinvolgimento della Colchide (il luogo che secondo la tradizione aveva visto la nascita della metallurgia) e di aree minerarie molto importanti, come per esempio la costa toscana e l'Isola d'Elba. Dallo svolgimento del mito si ricavano poi altri aspetti che introducono alcuni elementi legati all'esperienza coloniale. Il primo è che la leggenda trova la sua origine a Iolco nella Tessaglia, una regione fortemente legata al mito dei Pelasgi[10] e il secondo che agli Argonauti viene attribuita la fondazione del tempio di Hera Argiva alla foce del fiume Sele presso Poseidonia[11]. Tale fondazione, sottintende una presa di possesso di quest'area che avverrà nella realtà solo successivamente, quando tale divinità diventerà la protezione simbolica dello spazio politico delle città degli Achei nei confronti del mondo dei barbari.


L'Odissea di Ulisse.
Abbiamo visto come la tradizione greca abbia rappresentato la navigazione micenea attraverso un modello costruito sul racconto dei viaggi che i guerrieri Achei avrebbero intrapreso una volta partiti da Troia. Tra essi spicca quello di Ulisse che Omero ha popolato di maghe, ciclopi, mostri ed altri esseri fantastici, come si conviene ai racconti che accompagnano i viaggi di tutti i marinai. In questo senso, l'Odissea costituisce una rappresentazione mitica della realtà che, attraverso le avventure fantastiche di Ulisse e dei suoi compagni, rende conto delle esperienze vissute dai marinai Achei sulle rotte del Mediterraneo durante l'epoca micenea. Esse ci permettono di recuperare un contesto che, seppure riferito all'epoca micenea ed alla navigazione che gli Achei realizzarono durante l'età dei metalli, stabilisce un collegamento con la realtà delle città. Ciò si rende evidente dal fatto che la tradizione, nata in un'epoca in cui già esistevano le colonie, non le cita volutamente, ma si sofferma su una serie di aree molto importanti che successivamente saranno controllate dai Greci e che, in alcuni casi, vedranno la nascita di una realtà urbana solo diverso tempo dopo la prima ondata coloniale. In questo senso i miti che riferiscono della presenza di Ulisse non citano espressamente Crotone (rimandano infatti ad una realtà precedente) ma forniscono lo stesso una rappresentazione compiuta che vedrà in seguito protagonista la città. Essi coinvolgono realtà costiere come Scylletio[12] e si ricollegano, per quanto detto, alla presenza delle sirene a Terina. Ciò avviene perché queste leggende presuppongono la percorrenza della via istmica, ma anche quella di altre realtà interne legate ai principali punti di attraversamento est-ovest della Calabria. Ad Ulisse è, infatti, legata la fondazione del santuario di Polite a Temesa[13]. Non è un caso, che facendo riferimento alle aree interne della Calabria, la tradizione greca tramandi l'esistenza del centro minerario di Temesa, il cui ricordo presente nell'Odissea[14], costituisce un riferimento molto remoto. Tale antichità risulta in collegamento sia con il ruolo che questo centro svolse nell'ambito del commercio dei metalli, sia con le sue origini ausonie. Bisogna comunque dire che l'attribuzione di Temesa alla Calabria risultava controversa già tra gli storici antichi, anche se oggi si ritiene, abbastanza unanimemente, che la sua ubicazione debba essere ricercata nel tratto centrale del versante tirrenico. Ciò secondo valutazioni che tengono conto dello sbocco delle vie istmiche che, in quest'area, permettono i collegamenti con il rispettivo versante ionico. Tale identificazione che si giova della netta presa di posizione di Strabone[15], consente di attribuire a Temesa un ruolo importante anche in epoca storica strettamente connesso alla sua posizione geografica ed alla sua disponibilità di risorse minerarie. Strabone, infatti, non solo riferisce che la città fu fondata dagli Ausoni, ma collega ad essa il ricordo della morte di Polites compagno di Ulisse, in onore del quale, quest'ultimo, avrebbe fondato un santuario in prossimità della città. Se l'origine ausonia di Temesa può considerarsi un riferimento generico, ma coerente con l'identificazione che la tradizione assegna a questa popolazione, l'episodio della morte di Polites, ricordato anche da Pausania[16], è un chiaro segnale, che, oltre a ribadire il ruolo di Temesa legato al commercio dei metalli, consente, come vedremo presto, di circoscrivere la sua realtà ad un'orbita controllata dai Greci. Non deve a questo punto apparire strano che per Temesa, come del resto per altri centri pertinenti alla percorrenza delle aree interne, la tradizione tramandi una fondazione greca antichissima[17]. Ciò deriva da una frequentazione molto remota ed al fatto che questi centri, essendo strategici per i movimenti interni, saranno controllati dagli Achei dopo la fondazione delle loro città. Ritornando invece all'età del bronzo, possiamo dire che tale frequentazione non costituisce un'esclusività greca, perché il mito dimostra di contemplare anche presenze diverse. Ciò si rende evidente proprio nel caso di Ulisse, al quale si ricollegano, in epoca storica, i miti che riferiscono dell'origine degli Etruschi, un popolo che ha condiviso con i marinai achei dell'età micenea e con altri, gran parte degli avvenimenti che abbiamo evidenziato e che ha lasciato consistenti tracce della propria presenza nel territorio di Crotone.

 

Le peregrinazioni di Enea.
Accanto ai racconti che riferiscono dei viaggi di ritorno che gli Achei intrapresero dopo la conquista di Troia, le vicende dell'età micenea ci sono descritte anche attraverso il celebre racconto epico che ha per protagonista Enea. Fuggito da Troia in fiamme, egli avrebbe compiuto un lungo viaggio per mare prima di approdare nel Lazio, dove avrebbe posto le basi per la nascita di Roma. Analogamente ai casi visti, anche qui Virgilio opera una ricostruzione letteraria, che ha un riferimento preciso alle vicende che riguardarono la navigazione lungo le coste italiane durante l'età del bronzo, e che è presentata come preludio alla nascita della realtà urbana. Percorrendo una rotta costellata di avventure, Enea incontra popoli ostili ed amici, lotta contro esseri malvagi, affronta la furia degli elementi e subisce la volontà degli dei come i personaggi già menzionati. Come essi compie atti che ne sottolineano il ruolo di precursore della civilizzazione. In questo senso lo troviamo recarsi a Delo per interrogare l'oracolo di Apollo, seppellire il padre in Sicilia, partecipare con i suoi compagni a concorsi agonistici, tracciare i confini di città e compiere i riti del caso, secondo uno schema che avremo modo di approfondire. Tali constatazioni generali, non ci permettono, al momento, di introdurre grandi elementi di novità, ma alcuni brani del poema di Virgilio ci offrono lo spunto per evidenziare aspetti relativi a testimonianze già scorse e che in questo caso possono essere meglio circostanziate. Si tratta, in particolare, di un brano che trova Enea e i suoi compagni coinvolti in un episodio analogo a quello descritto da Strabone e da Licofrone, che avrebbe visto Filottete ed i suoi subire l'incendio delle navi da parte delle loro donne troiane[18]. Nel caso dell'episodio riferito nell'Eneide, mentre in Sicilia i Troiani erano ospiti di Aceste (un sovrano del luogo figlio della ninfa troiana Egesta) le loro donne, radunate presso la riva del mare, su istigazione di Giunone (Hera), con i tizzoni che ardevano sugli altari del vicino tempio di Nettuno (Poseidone) dettero fuoco alle navi, con l'intento di mettere fine alla pena del loro lungo viaggio. Le analogie esistenti tra questi due episodi trovano poi un'ulteriore conferma, questa volta più specifica, quando Strabone riferisce, in due diversi passi[19], che successivamente allo sbarco presso il Neto, una parte dei compagni di Filottete, guidati dal troiano Egesto, ripresero il mare e giunti in Sicilia fondarono Egesta (la Segesta dei Romani). Il collegamento con la realtà siciliana, è poi confermato anche in una seconda occasione, quando, sul finire del VI secolo, il crotoniate Filippo, entrato in disaccordo con i propri concittadini, fu esiliato e si unì alla spedizione di Dorieo che intendeva insediarsi in Sicilia, ma che fu completamente annientata dagli Egestani. In tale frangente, Erodoto ricorda che questi ultimi avevano eretto a Filippo una splendida tomba venerandolo come una divinità[20]. Seppure avremo modo di ritornare su questi fatti, al momento possiamo dire che quanto ci riferisce la tradizione in merito alle vicende di Filottete, avvalora la serie di constatazioni che abbiamo precedentemente espresso. Quest'ultima contempla una serie di presenze non riconducibili in via esclusiva agli Achei e testimonia di una realtà precedente alla fondazione, dove le vicende dei marinai dell'età del bronzo sono comprensibilmente dominate da Nettuno/Poseidone, la divinità a cui veniva riconosciuta la sovranità sull'ambiente marino. Una tradizione più tarda dimostra di essere, invece, quella riferita da Dionigi di Alicarnasso[21], dove si cita la presenza di Enea presso il santuario di Hera al capo Lacinio e si riferisce di un dono votivo (una coppa di bronzo), che l'eroe avrebbe offerto alla dea. In questo caso, la tradizione non è pertinente alla fase che vede protagonisti i coloni achei, ma può essere ricondotta ad un momento molto successivo, riferibile alle trasformazioni del territorio operate dai Romani.

 

I secoli bui del Medioevo Ellenico.
I contatti tra i marinai micenei e le popolazioni dell'Italia, ad un certo punto subirono una battuta d'arresto, in virtù degli avvenimenti che interessarono i regni micenei in patria. Si tratta del periodo compreso tra i sec. XII - IX ed VIII a.C., che ci è poco noto e per il quale si usa comunemente l'espressione di Medioevo Ellenico, che allude ad un regresso di civiltà o meglio, ad un'epoca di profonda trasformazione nella civiltà ellenica. Senza nasconderci il carattere piuttosto ipotetico delle nostre affermazioni, vediamo gli aspetti meno dubbi di questo periodo. L'avvenimento principale, o comunque quello che ebbe il maggior peso nel determinare le conseguenze, fu l'invasione della Grecia da parte dei Dori, che li portò all'inizio del sec. XII a.C. alla conquista del Peloponneso. Discesi in Grecia attraverso l'Illiria e l'Epiro, da una parte e attraverso la Macedonia e la Tessaglia dall'altra, i Dori si diressero verso l'istmo di Corinto, risparmiando l'Attica, difesa dalla catena montuosa del Citerone e penetrati nel Peloponneso, arrivarono, col trascorrere del tempo, all'occupazione delle Cicladi, fino a raggiungere Creta e Rodi. A tale invasione seguì una fase di assestamento che, da una parte, determinò una serie di spostamenti delle popolazioni residenti ed una migrazione verso le coste dell'Asia Minore e, dall'altra, provocò un'interruzione dei contatti tra l'Italia ed il mondo miceneo. Quest'interruzione si protrasse fino alla seconda metà del sec. XI a.C., quando è possibile evidenziare una ripresa che vede in primo luogo protagonisti i Rodii[22], la cui presenza nel territorio di Crotone è segnalata dal loro coinvolgimento nel processo di acquisizione del territorio da parte degli Achei[23], come ci viene descritto a proposito del mito di Filottete.

 

L'età del ferro.
La fine dell'età del bronzo (all'incirca il periodo compreso tra i sec. XII e X a.C.) è un momento di notevole importanza, in quanto coincide con quello della formazione dei popoli che saranno protagonisti della fase che in parte precede ed in parte accoglie la fondazione della città (età del ferro sec. IX - VIII a.C.) e che in diversi casi dovranno subire l'arrivo dei Greci. Tra di essi, gli Enotri appaiono la popolazione principale che i coloni trovarono in Italia meridionale, come indicano i resoconti relativi alla fondazione di diverse città ed il fatto che i Greci, oltre che Esperia (terra posta a occidente), chiamavano Enotria (terra degli Enotri) tutta l'Italia da essi conosciuta. Accanto a quest'evidente generalizzazione, la tradizione, sempre in maniera frammentaria, consente di circostanziare meglio il popolamento di alcune aree, come nel caso del litorale ionico compreso tra Siri e Crotone. Quest'area sarebbe appartenuta ai Choni, una sorta di parenti degli Enotri[24] ai quali, anche in questo caso, sono attribuite le solite remote origini greche. Riguardo ad essi la tradizione ci fornisce alcune notizie basate sulle vicende dell'eroe greco Filottete, all'opera del quale viene fatta risalire la fondazione di alcune loro antiche città. I pochi riscontri archeologici e la confusione generata dal fatto che le versioni fornite non sembrano accordarsi tra di loro, ha fatto sì che l'identificazione di questi centri sia ancora molto controversa, dando luogo a diverse interpretazioni.[25] Essi sono comunque ritenuti pertinenti all'area del Neto ed in particolare alla zona situata a nord del fiume, dove l'indagine archeologica ha evidenziato la presenza di insediamenti dell'età del ferro, che sono considerati affini ai centri enotri della Calabria nord orientale[26]. In questo periodo in ogni caso, appare un altro popolo che sembra aver caratterizzato il territorio di Crotone, ed in particolare le aree costiere a sud della città. Eforo di Cuma eolica citato da Strabone, riferisce che prima dell'arrivo dei Greci, il luogo della città fu abitato dai Iapigi[27] e lo stesso Strabone[28] identifica i tre promontori che seguono a sud quello Lacinio, come "i tre promontori degli Iapigi"[29]. La notizia potrebbe essere avvalorata dal fatto che questo toponimo si ritrova anche all'altro limite del golfo di Taranto[30], e dal fatto che gli Iapigi, che all'inizio dell'età del ferro troviamo in un'area che comprende parte della Puglia, vengono accreditati di una avanzata verso sud, che avrebbe portato i Siculi a migrare in Sicilia[31]. A questo punto, seppure in maniera sfumata, appare un quadro etnico del territorio. A prescindere dalle localizzazioni assegnabili a ciascuna popolazione, possiamo affermare con sufficiente sicurezza, che durante l'età del ferro esso si presentava come una realtà composita, divisa tra popolazioni diverse. Altrettanto sicuramente, possiamo affermare che queste popolazioni abitavano il territorio in maniera diversa da come avrebbero poi fatto gli Achei, vista la capacità di questi ultimi di governarlo successivamente in maniera egemone. Se non si ammette l'uso di qualche arma segreta, bisognerà convenire che la superiorità politico-militare degli Achei si manifestò in virtù della loro capacità di assumere sul terreno un assetto diverso rispetto ai predecessori. Tale realtà che si delinea velatamente attraverso il poco che abbiamo potuto evidenziare al momento, trova le sue conferme ad un esame più accurato delle vicende che riguardarono l'arrivo dei coloni. Essi non furono una moltitudine di sbandati che vagavano alla ricerca di un luogo enigmaticamente segnalato da un indovino, ma un gruppo piccolo e ben organizzato di uomini e di donne, che avrebbe impresso una svolta storica così epocale, da costringerci ancora oggi a cercare la traccia ancora percettibile del loro passaggio.

[1] B. d'Agostino, L'esperienza coloniale nell'immaginario mitico dei Greci, p. 209-210, in I Greci in Occidente, ed. Bompiani 1996.
[2] Licof. 910-929.
[3] Dion. di Alic. I, 11, 2-4; 12, 1; Strab. V, 3, 6.
[4] Arist., Pol. 1329 b.
[5] Questa via risulta il principale percorso usato dai Crotonesi in epoca medievale.
[6] Dion. di Alic. I, 11, 2-4; 12, 1.
[7] Erod. I, 56.
[8] Strab. V, 2, 4.
[9] Sull'origine del mito delle sirene e sul ruolo svolto dai Rodii, vedi M. Napoli, Civiltà della Magna Grecia, p. 127, ed. Eurodes, 1982.
[10] Strab. V, 2, 4.
[11] Strab. VI, 1, 1.
[12] Scol. ad Aen. III, 55; Cassiodoro, Var., VII, 15.
[13] Strab. VI, 1, 5.
[14] Omero I, 184.
[15] Strab. VI, 1, 5.
[16] Paus. VI, 6, 7-11.
[17] A tale situazione fanno riferimento le notizie che attribuiscono a due centri nodali di tali vie, Pandosia e Temesa, una fondazione greca molto antica. Pandosia sarebbe stata una colonia achea contemporanea di Metaponto, mentre Temesa, fondata dagli Ausoni, sarebbe stata in seguito colonizzata dai Greci.
[18] Strab. VI, 1, 12; Licof. 921; 1075-82.
[19] Strab. VI, 1, 3; VI, 2, 5.
[20] Erod. I, 56.
[21] Dion.di Alic. 1, 51, 3.
[22] M. Napoli, op. cit., p. 51.
[23] Ps. Arist., De Mir. Aus., 107; Licof. 910-929.
[24] Arist., Pol. VII, 10.
[25] A Filottete, Strabone (VI, I, 13) attribuisce la nascita di Petelia e citando Apollodoro indica le città di Chone e Crimissa, quest'ultima ricordata anche da Licofrone (910-929). Anche Virgilio (Eneide III, 401-2) indica la fondazione di Petelia da parte di Filottete, mentre Lo Pseudo-Aristotele (De Mir. Aus., 107), non cita Petelia, ma attribuisce a Filottete la fondazione di Macalla.
[26] M. Giangiulio, Ricerche su Crotone arcaica, p. 224, S. N. S. di Pisa, 1989.
[27] Strab. VI, 1, 12.
[28] Strab. VI, 1, 11.
[29] Con ogni probabilità sono da riconoscere negli odierni capo Cimiti, capo Rizzuto e Punta Le Castella.
[30] Anticamente il capo di S. Maria di Leuca che costituisce il limite nord del golfo di Taranto, era chiamato il promontorio Iapigio.
[31] Ellanico di Lesbo (apud Dion. di Alic. 1, 22) riferisce che Siculo, re degli Ausoni, fu scacciato dagli Iapigi e migrò in Sicilia tre generazioni prima della guerra di Troia.

 

capitolo secondo

Colonie e colonizzatori.
L'arrivo di emigranti da oltre mare, costituisce una realtà che ha interessato il territorio di Crotone da epoche molto remote, fino a diventare la cronaca dei nostri giorni. In questo senso, l'arrivo degli Achei potrebbe essere considerato solo come uno dei tanti episodi di questo tipo. Esso dimostra invece una sua specificità, che non è tanto legata ad un generico episodio di nuovo popolamento del territorio, ma soprattutto ad una sua netta e repentina trasformazione che, seppure spesso enfatizzata in funzione di generiche prerogative di civilizzazione solitamente attribuite ai Greci, dimostra di aver rappresentato l'origine del lungo processo che portò all'affermazione della civiltà occidentale in Europa. Quest'importante implicazione, legata all'arrivo dei Greci in Italia, non deve far perdere di vista la reale dimensione degli avvenimenti che, in ogni caso, non furono determinati da uomini che avevano l'intenzione di dare lezioni di filosofia a degli sprovveduti, ma che erano fermamente intenzionati a procurarsi i mezzi per condurre la propria esistenza. E' infatti facile in questo caso, il rischio di enfatizzare e conseguentemente di travisare i fatti, a partire da quelli che vengono riassunti con il termine di "colonizzazione", che non solo è pertinente a ben altri momenti storici, ma induce, inevitabilmente, una serie di implicazioni errate che hanno poco a che vedere con l'arrivo dei Greci in Italia. Nel caso della fondazione di Crotone, come in altri, si parla comunemente di colonie e seppure anche noi continueremo ad utilizzare questo termine per facilità di esposizione, bisogna evidenziare che esse furono delle nuove realtà autonome rispetto a quelle di origine che i Greci avevano lasciato. Questi ultimi, a differenza di quanto fecero per esempio Spagnoli e Portoghesi a partire dalle scoperte di Cristoforo Colombo, non conquistarono delle nuove terre nel nome e per conto della loro patria d'origine, ma crearono dei nuovi stati completamente indipendenti. Per i Greci, poi, non si trattò di compiere nessuna scoperta geografica, in quanto, come abbiamo visto, essi conoscevano molto bene la terra che li attendeva al di là del mare.

 

L'epoca della fondazione.
Chiariti questi aspetti, la prima cosa da stabilire è rappresentata dalla definizione dell'epoca dei fatti. La data di fondazione di Crotone è indicata dalla tradizione attraverso due accostamenti, riferiti rispettivamente alla nascita di Sibari e Siracusa. Secondo la versione armena del Cronicon di Eusebio, Crotone fu fondata contemporaneamente a Sibari nel 708-707 a.C., una data che è sostanzialmente confermata dalla versione di Girolamo (709-708 a.C.) e da Dionigi di Alicarnasso[1] che individua la fondazione di Crotone nel terzo anno della XVII^ Olimpiade (709-708 a.C.). La contemporaneità con la fondazione di Siracusa (il 734-733 a.C. secondo diversi autori antichi), è invece riferita da Strabone[2] e da Pausania[3]. Nella loro valutazione, gli studiosi moderni sono divisi tra chi ritiene più verosimile la data più antica e chi invece attribuisce maggiore attendibilità a quella più recente. Tali valutazioni poggiano su considerazioni che tengono conto di una serie di aspetti complessivi, che non hanno ancora prodotto una versione unanime. Senza entrare nel merito della questione, allo stato attuale possiamo circoscrivere gli eventi alla seconda metà del sec. VIII a.C., come sembrano confermare le indagini archeologiche che mettono in relazione conseguente l'arrivo dei Greci con la crisi che in questo periodo investe la civiltà delle popolazioni residenti lungo tutto l'arco ionico della Calabria[4]. Se la definizione di una data precisa appare una questione sufficientemente circoscritta, molti altri aspetti della nascita della città sono più controversi ed incerti. Gli elementi che abbiamo a disposizione per tentare una ricostruzione, sono rappresentati dai miti relativi agli eroi fondatori, da quelli che riguardano l'origine degli Achei e da qualche altro aspetto che proveremo ad analizzare.

 

I miti degli eroi fondatori.
La comprensibile importanza che è possibile riferire all'atto di fondazione di una città, fa sì che i racconti leggendari che descrivono la nascita di Crotone siano abbastanza circostanziati. Secondo quello di Diodoro Siculo[5], Ercole, attraversando l'Italia con la mandria dei buoi sottratti a Gerione durante la sua decima fatica, uccise Lacinio mentre tentava di rubargli il bestiame, uccidendo però, accidentalmente, anche Crotone. Per quest'ultimo organizzò magnifici funerali, erigendogli una tomba e predicendo che in quel luogo sarebbe nata un giorno una città chiamata con il suo nome. La favola di Ercole e Crotone è menzionata anche da altri[6] tra i quali Servio, il cui racconto precisa che Lacinio avrebbe sconfitto Ercole scacciandolo dai suoi domini, ed avrebbe innalzato un tempio a Hera in segno di ringraziamento[7]. Questi racconti, che insistono sulla figura di Ercole, non costituiscono comunque, un'esclusiva riguardante la fondazione di Crotone, ma il racconto delle sue gesta ricalcato coinvolgendo personaggi locali diversi, si ritrova collegato a numerose altre realtà. Anche a Roma, per esempio, Ercole è autore di un episodio analogo, dove subisce il furto dei buoi da parte di Caco che uccide fondando il culto dell'Ara Maxima nel foro boario. A testimonianza dell'uso di uno schema prefissato, Conone riproduce per Locri l'episodio riferito da Diodoro siculo relativo a Crotone con il medesimo svolgimento, sostituendo semplicemente le figure di Lacinio, Crotone e Laura con quelle di Latino, Locro e Laurina[8]. In questo caso Locro (che in parallelo possiamo considerare lo stesso Crotone) è presentato come fratello di Alcinoo e figlio di Feace re di Corcira che, alla morte del padre, sarebbe emigrato in Italia, dove sarebbe stato accolto da Latino (Lacinio) che gli avrebbe dato in moglie la figlia Laurina (Laura). Secondo un'altra versione[9], dove i Crotoniati sono definiti "figli di Laureta", Crotone sarebbe giunto fuggiasco in Italia, dove avrebbe preso in moglie Laura/Laureta, figlia di Lacinio. In via generica, possiamo affermare che tali ricostruzioni si limitano ad individuare, sinteticamente, una realtà precedente a quella che vedrà protagonisti i coloni, dove si evidenzia la presenza di comunità alle quali si attribuiscono, per le ragioni che sono già state messe in evidenza, origini che coinvolgono la Grecia proto storica. Esse, inoltre, nell'ambito dei contatti segnalati durante l'età dei metalli, mettono in luce il ruolo strategico di Corcira (Corfù) per la navigazione verso occidente. Per comprendere meglio queste rappresentazioni è comunque necessario approfondire il significato dei culti che i Greci riservavano agli eroi fondatori. Possiamo dire che gli eroi erano delle divinità e che le favole che raccontano le loro gesta, sono state inventate dalla tradizione greca per rappresentare la realtà storica della nascita della comunità cittadina. In questo caso, considerato che i personaggi coinvolti sono spesso numerosi, ogni eroe rappresenta una tappa di questo processo. Nel nostro caso la prima tappa è rappresentata dalla favola che coinvolge Lacinio e Crotone e che attraverso il racconto della loro uccisione da parte di Ercole, tramanda la conquista del territorio da parte dei Greci. Secondo lo svolgimento del mito, l'elemento greco rappresentato da Ercole, impone e stabilisce (attraverso l'uso legittimo della violenza), un nuovo ordine sociale che è rappresentato dalla predizione della nascita della città. Attraverso questa predizione verrà in futuro giustificato l'arrivo degli Achei che fonderanno la città, compiendo la volontà divina dell'eroe ed adempiendo al suo volere. A queste conclusioni si giunge anche analizzando le diverse variazioni di questo mito, come nel caso dell'episodio che coinvolge Ercole e Miscello, il personaggio al quale la tradizione attribuiva il merito di aver guidato la spedizione degli Achei a Crotone. Ercole, infatti, apparso in sogno a Miscello, gli avrebbe imposto di adempiere al suo volere e di andare a fondare una città nel luogo predestinato segnato dalla tomba di Crotone presso il fiume Esaro[10]. Seppure questa tradizione individui presso l'Esaro la tomba di Crotone, il luogo sacro attraverso il quale viene rappresentata la legittimità della conquista, lo scenario complessivo nel quale è ambientato l'episodio, coinvolge il capo Lacinio e non solo il luogo che ospiterà le case degli Achei. Non deve sembrare strano che nella favola sia coinvolto direttamente un luogo fisico diverso da quello sul quale sorgerà il nucleo urbano della città. Attraverso tale rappresentazione, ci viene tramandato solo il primo passaggio del processo che porterà alla sua fondazione. Esso riguarda un periodo in cui la città ancora non esiste, che fa solo da premessa ideologica al successivo arrivo degli Achei. La tradizione sottolinea, in questo modo, lo spazio politico della città che costituisce una realtà unica con il suo territorio e di cui il capo Lacinio rappresenta in questo senso, uno dei punti significativamente più importanti. Oltre al racconto mitico di Crotone, la sacralità del territorio della città, legata alla presenza della tomba di un eroe, è sottolineata attraverso il ricordo di Achille, che secondo il racconto di Licofrone, sarebbe stato sepolto sul capo Lacinio[11]. Questo fatto costituisce la tappa successiva a quella che abbiamo appena descritto che, sempre attraverso uno schema consueto alla tradizione greca, coinvolge gli eroi di ritorno dalla guerra di Troia. Nel nostro caso, tale rappresentazione verte principalmente sulle figure di Achille e di Filottete, ma contempla la presenza anche di altri personaggi (Menelao e Enea) per motivi che analizzeremo in seguito[12]. I miti che descrivono le gesta di questi eroi, sottolineano il ritorno dei Greci nel luogo predestinato, dove essi si rendono autori di un secondo passaggio nella storia della nascita della città. Essi sono i leggendari guerrieri che popolano la tradizione cantata da Omero, che entrano in contatto con i barbari per attuare la loro civilizzazione con la quale, in definitiva, si sottintende la loro conquista. Questa civilizzazione condotta con le armi, viene ambientata dal mito in un'epoca più antica rispetto a quella che vedrà effettivamente l'arrivo dei coloni Achei, perché anch'essa, come i miti che coinvolgono Ercole, tende a creare una tradizione che giustifichi e legittimi la nascita della città. Un aspetto importante che riguarda Achille e Filottete è che essi sono entrambi eroi Tessali. Quest'aspetto comune non è casuale, ma costituisce un riferimento molto importante ad una origine che doveva essere molto sentita sia dai Crotoniati che dagli altri Achei[13].

 

I Coloni Achei.
Dopo l'intervento degli eroi, la tradizione ci fornisce l'ultimo passaggio relativo alla nascita della città, quello che vede protagonisti i coloni. Soffermiamoci su di loro e cerchiamo di rispondere ad alcuni interrogativi che ci viene spontaneo sollevare. In primo luogo chi erano e da dove venivano? In merito all'identità dei coloni, possiamo dire che le fonti sono sostanzialmente concordi nell'attribuire la fondazione di Crotone agli Achei[14], che sarebbero stati guidati da Miscello nativo di Ripa in Acaia, una regione montuosa e poco ospitale posta lungo il golfo di Corinto nel Peloponneso settentrionale. Questa sostanziale uniformità di vedute ha comunque alcune significative eccezioni. Secondo Pausania[15], Crotone sarebbe stata fondata dagli Spartani durante il regno di Polidoro, mentre Erodoto[16] riferisce una versione che sembra divergere nettamente dalla tradizione che accredita gli Achei e che sembra contraddirsi con un altro passo dello stesso autore[17], dove egli riporta testualmente che i Crotoniati erano di razza achea.
"Quale lingua parlassero i Pelasgi, non potrei dirlo con esattezza; ma se si deve trattarne, argomentandolo da quelli che ancora rimangono dei Pelasgi che, sopra i Tirreni, abitarono la città di Crotone ed erano un tempo vicini a quelli che ora si chiamano Dori (abitavano allora il paese che ora è chiamato Tessagliotide), e di quei Pelasgi che, sull'Ellesponto, colonizzarono la città di Placia e Scilace e abitarono insieme agli Ateniesi, e da tutte quelle città che erano pelasgiche e poi cambiarono nome, se si deve, dunque, parlarne basandosi su queste congetture, i Pelasgi parlavano una lingua barbara. E se tale era la condizione di tutta la schiatta pelasgica, il popolo ateniese, che ad essa apparteneva, quando passò tra i Greci, dovette anche imparare un'altra lingua. Infatti, neppure gli abitanti di Crotone hanno comunanza di lingua con quelli che ora stanno loro intorno, e così quelli di Placia, che parlano come i Crotoniati e danno in tal modo dimostrazione che essi conservano gelosamente quella particolare lingua che portarono con se quando trasmigrarono nelle attuali loro sedi". Tralasciando per il momento la testimonianza di Pausania e soffermandoci sulla comprensione di quella di Erodoto, il primo passo è quello di riprendere quanto abbiamo esposto a proposito degli Achei e dei Pelasgi. Possiamo riassumere che gli Achei erano arrivati in Grecia durante il bronzo antico (XVIII secolo) dando luogo, durante il periodo compreso tra il XVI ed il XII secolo, alla civiltà Micenea rappresentata nei poemi epici, dove Omero (utilizzando anche altri nomi) chiama Achei tutti i Greci che parteciparono alla guerra di Troia. In questo caso, come Achei possiamo identificare, seppure genericamente, gli abitanti della Grecia in epoca micenea. Sostanzialmente diversa appare la situazione all'epoca della fondazione della città, dove per Achei debbono essere intesi gli abitanti dell'Acaia peloponnesiaca che, coerentemente con la loro antica provenienza settentrionale, la tradizione (non senza eccezioni) considerava originari della Tessaglia. I Pelasgi rappresentano, invece, una fase leggendaria, non solo più remota di quella riferibile agli Achei ed agli altri popoli di razza indoeuropea, ma anche barbara (e quindi pre-greca) come abbiamo visto nella nostra analisi, come riferisce Strabone, quando li colloca in una fase ancora caratterizzata dal nomadismo[18] e come testimonia Erodoto, quando dice che essi non parlavano greco. Anche i Pelasgi, nel mito che li accompagna, avevano comunque nella Tessaglia uno dei luoghi più significativi legati alla loro tradizione[19]. La citazione di Erodoto è a questo punto comprensibile, in quanto non si contrappone alla versione generalizzata che vuole Crotone fondata dagli Achei (egli stesso lo riporta esplicitamente), ma legandosi alla tradizione che indica gli Achei originari della Tessaglia, ha lo scopo di chiarire un aspetto remoto. Ciò si capisce dal contesto trattato dallo storico, che nel passo citato, descrive la situazione nota ai suoi tempi riferendola alle origini. Quanto ci dice Erodoto in merito all'origine dei Crotoniati, fa infatti esplicito riferimento alla sede abitata dai loro antenati, prima che venisse abbandonata dietro l'invasione dei Dori. A seguito di quest'avvenimento, gli Achei dei regni micenei (compresi quelli che abitavano la Tessagliotide) furono in parte costretti ad emigrare, raggiungendo le aree montuose lungo il golfo di Corinto, la regione del Peloponneso settentrionale che, successivamente al loro arrivo, assumerà il nome di Acaia. In epoca storica, gli Achei dell'Acaia, ai quali è attribuita la fondazione di Crotone e delle altre colonie che vengono chiamate achee, sono quindi da considerare i discendenti degli Achei dei regni micenei, che furono sospinti nel Peloponneso dall'invasione dorica. In definitiva, secondo Erodoto, i Crotoniati avevano una antica origine pre dorica riferibile ai leggendari Pelasgi. Considerato che questa tradizione affonda le sue radici in un mito dai contorni sfumati, che riferisce addirittura di una fase primordiale, essa non sembra per questo storicamente praticabile per approfondire ulteriormente l'origine dei coloni. Risulta viceversa, fondamentale per chiarire una serie di avvenimenti successivi che vedranno protagonista la città. L'origine pelasgica, tirata in ballo da Erodoto, dimostra infatti di essere utilizzata in chiave polemica nei confronti delle realtà di origine dorica, in quanto si evidenzia in una fase (la metà circa del V secolo) nella quale da una parte Sparta e Atene si contrapporranno violentemente, coinvolgendo larga parte del mondo greco, dall'altra quest'ultima consoliderà in occidente una propria rete di rapporti che interesseranno particolarmente Crotone. La notizia dell'origine pelasgica dei Crotoniati (analoga in sostanza a quella degli Ateniesi) appare solo in Erodoto che fu uno dei principali artefici della spedizione ateniese che, nel contesto a cui abbiamo appena fatto cenno, portò alla fondazione in Italia di Thuri. In questo senso è possibile comprendere la notizia riferita da Pausania, che voleva gli Spartani quali fondatori di Crotone. Essa si colloca in antitesi alla posizione riferita da Erodoto per gli stessi motivi, che verranno meglio circostanziati in occasione degli avvenimenti pertinenti al periodo.

 

Greci ed Etruschi.
Anche se il passo di Erodoto è diventato a questo punto meglio comprensibile, un altro suo passaggio ci lascia ancora perplessi, dato il riferimento esplicito ad una presenza dei Tirreni (gli Etruschi) a Crotone che non è riportata da altri. Per appurare la questione, cominciamo con il dire che gli Etruschi sono un popolo la cui origine è ancora controversa tra gli studiosi moderni, anche se alcuni storici antichi li accreditano di una provenienza orientale, che Erodoto identifica nell'antica Lidia[20] (l'odierna Turchia). Egli riferisce che a seguito di una carestia, Atis sovrano dei Lidi, avrebbe promosso la migrazione di una parte del suo popolo sotto la guida del figlio Tirreno. Dopo aver a lungo peregrinato, i Lidi sarebbero giunti finalmente nell'Italia centrale (la terra degli Umbri), costituendo una serie di città ed assumendo il nuovo nome di Tirreni. Questo mito sembra trovare conferma nel ritrovamento nell'isola di Lemno di una stele funeraria (una lastra tombale) risalente al VI secolo a.C., recante un'iscrizione in una lingua che non è il greco ma che, secondo gli specialisti, dimostra di essere affine all'etrusco. Oltre ad avvalorare l'origine orientale degli Etruschi, questo ritrovamento sembra a sua volta confermare due diverse notizie. La prima è rappresentata da quanto dice Ellanico di Lesbo, secondo il quale gli Etruschi discendevano dai leggendari Pelasgi, la seconda è in Erodoto[21] che indica questi ultimi come gli antichi abitatori di Lemno. Entrambe le citazioni si ricollegano poi alla testimonianza di Anticlide che, citato da Strabone, afferma che i Pelasgi furono i primi a colonizzare Lemno, mentre successivamente si sarebbero uniti alla spedizione di Tirreno in Italia[22]. I soggetti coinvolti dovevano comunque essere gli antenati degli Etruschi che noi conosciamo, visto che il contesto orientativo della partenza di Tirreno, è rappresentato dal riferimento di Erodoto al tempo di Atis e dalle vicende conseguenti in Grecia all'arrivo dei Dori. Legati a tali invasioni sono le migrazioni che si sarebbero verificate verso l'Anatolia occidentale, dove avrebbero avuto la conseguenza di provocare un'ulteriore migrazione da quest'area verso l'occidente. All'interno di questo processo, potrebbe quindi trovare spiegazione la presenza proto storica degli Etruschi nel territorio di Crotone, che non solo sembra coerente con i processi che abbiamo illustrato e che caratterizzarono la vita del Mediterraneo nel periodo successivo all'invasione dorica (XII secolo), ma s'inquadra anche con le vicende che riguardarono il territorio italiano nella fase immediatamente precedente alla fondazione delle colonie greche. Cominciamo con il dire che quando i Greci iniziarono la colonizzazione dell'Italia si trovarono a fare i conti con la presenza degli Etruschi, dato che già prima della fondazione di Pithecussa (Ischia), questi ultimi avevano realizzato consistenti insediamenti tra il golfo di Salerno e Capua. La tradizione greca, infatti, riporta a loro carico una ricca casistica di episodi infamanti, che in particolare riguardano la tanto odiata e temuta pirateria etrusca. Gli Etruschi, seppure nella realtà non si comportarono diversamente da come fecero tutti quelli che trafficavano per mare, erano al tempo i veri e propri dominatori del Tirreno (chiamato appunto con il loro nome), ma esistono ragioni fondate per portarci a ritenere che non si limitassero a questo. Eforo citato da Strabone, riferisce che prima della fondazione delle più antiche città greche della Sicilia (Naxos e Megara), i Greci avevano accuratamente evitato di commerciare lungo le coste siciliane, per motivi legati all'aggressività dei barbari ed alla presenza dei pirati etruschi[23]. Per quanto riguarda più da vicino i contatti tra la navigazione degli Etruschi ed il territorio calabrese in tale fase, è stato evidenziato che questi ultimi, non solo frequentavano la costa tirrenica, ma sfruttando le vie istmiche, si spingevano anche su quella ionica, dove sono stati ritrovati materiali etruschi nell'area di Locri riferibili ad un periodo compreso tra VIII e prima metà del VII secolo[24]. Questa situazione, seppure non ci permetta in definitiva di poter appurare se gli Etruschi fossero presenti fisicamente lungo le vie interne della Calabria, ci consente di riscontrare la loro presenza commerciale e di trarne alcune considerazioni. La prima è che tale presenza è del tutto comprensibile, dato che queste vie erano utilizzate da tempi più remoti e da popolazioni più primitive, la seconda è che essa coincide anche con gli avvenimenti contemporanei ed immediatamente successivi che vedranno protagonisti i Greci.


Il mito di Filottete.
Per quanto riguarda le vicende che riguardano il territorio della città nelle epoche precedenti alla sua fondazione e che videro coinvolti gli antenati degli Etruschi, essi trovano riscontro anche nella tradizione mitica relativa a Filottete, che ora è arrivato il momento di approfondire. Riassumendo la sua epopea, troviamo inizialmente che le vicende dell'eroe sono messe in relazione alla morte di Ercole, quando quest'ultimo passò dalla condizione di mortale a quella di divinità immortale. Filottete, infatti, raccogliendo la richiesta di Ercole morente, lo avrebbe aiutato nell'ultimo ed estremo episodio della sua vita eroica, dando fuoco alla pira che serviva a cremare il suo corpo e ricevendo in cambio le frecce e il suo famoso arco. Il possesso di queste armi fa di Filottete una figura principale nel panorama degli eroi Achei che parteciparono alla conquista di Troia. Comandante dei Tessali che partirono per questa spedizione, durante il viaggio, a causa di una ferita al piede che non trovava guarigione, egli fu abbandonato dai compagni a Lemno. Qui però, ad un certo punto, tornò a riprenderlo Ulisse perché, secondo la profezia, Troia non sarebbe caduta senza l'intervento dell'arco di Ercole che era in suo possesso. Ritornato in patria e rifiutato dai suoi, l'epilogo del mito lo vede arrivare in Italia, dove come abbiamo detto, avrebbe eretto un tempio ad Apollo consacrandovi le armi di Ercole, avrebbe fondato una serie di città e sarebbe infine morto, venendo sepolto vicino al corso del fiume Sibari[25] o, secondo un'altra versione, del Crati[26] dopo aver combattuto gli Ausoni al fianco dei Rodii. Lo svolgimento del mito evidenzia, come al solito, un vero percorso storico, che rende conto di quello che abbiamo chiamato il secondo passaggio della storia della nascita di Crotone. Filottete, infatti, avrebbe raccolto l'eredità di Ercole (l'arco e le frecce) autore della predizione (il primo passaggio) e sarebbe sbarcato nel territorio dei barbari (l'area del Neto) realizzando la loro civilizzazione, rappresentata dalla fondazione di un santuario e di diverse città. Egli comunque sarebbe morto concludendo la propria missione, dato che essa rappresenta solo il preludio alla fondazione delle colonie. La sua tomba sarà il punto di riferimento per i suoi discendenti (gli Achei originari della Tessaglia) che compiranno la terza e conclusiva fase. In questo senso il mito coinvolge, complessivamente, l'arrivo degli Achei ed il territorio che ospiterà le loro città, dove esso, per la testimonianza di cui rende conto, rimarrà a sottolineare una fase precisa che diverrà patrimonio anche dei successivi abitatori dell'area[27]. Seppure la tradizione relativa a Filottete è da ascrivere all'opera dei coloni Achei, il mito viene ambientato in un'epoca più antica rispetto a quella storica, perché è mirato a creare la tradizione (come abbiamo visto non l'unica) che legittimi la nascita delle città, che ancora non esistono e che per tale motivo non vengono citate. Esso è centrato sulla figura dell'eroe che incarna la storia della sua stirpe, e per tale motivo trova una sua collocazione nel tempo. Il mito si lega infatti, ai contatti che si stabilirono tra le coste ioniche e gli Achei di epoca micenea, dato che esso si riferisce esplicitamente alla presenza dei Rodii. Esso, in sostanza, rende conto di una serie di avvenimenti che ebbero come teatro diversi luoghi del Mediterraneo e per protagonisti quei marinai sui quali tanto ci siamo soffermati nel capitolo precedente. Relativamente alle coste ioniche ed agli avvenimenti che solo molto tempo dopo vedranno la nascita delle città degli Achei, le loro vicende sono state costruite identificando la presenza micenea con quella degli antenati dei coloni, contemplando comunque una realtà diversa, che seppure non è citata espressamente, il mito colloca nella dimensione primordiale dei Pelasgi. In questo quadro trova comprensione la lunga e penosa epopea di Filottete che, dopo essere stato abbandonato a Lemno, aver combattuto a Troia, ed essere stato nuovamente rifiutato dai suoi, sarebbe sbarcato nell'area del Neto, dove la tradizione raccolta da Strabone[28] ha ambientato lo sbarco degli Achei e delle loro donne troiane. Gli elementi coinvolti nel mito sono quindi del tutto consoni allo svolgimento complessivo del processo che durante l'età del bronzo, avrebbe visto l'arrivo dall'oriente di quanti successivamente costituiranno la civiltà degli Etruschi. La tradizione li vorrà in questo caso, antichi parenti dei Greci, attraverso un riferimento ad un'antica e comune origine pelasgica che affonda le sue origini in una fase primordiale, e che fornisce una sintesi delle vicende deformate in senso greco, nella quale gli Etruschi trovano posto come i discendenti di Ulisse. Se ne deduce, che la citazione di Erodoto non contiene elementi che ci possono portare ad invalidare la tradizione che attribuisce agli Achei la fondazione di Crotone, come del resto quella di Sibari e delle altre colonie achee. Essa invece, ci fornisce la chiave di lettura di un passato remoto, che seppure distorto dallo storico ateniese in funzione di ragioni politiche dettate dal ruolo che la sua patria assunse in occidente durante la seconda metà del V secolo, da una parte chiarisce l'origine dei coloni e dall'altra, c'informa della presenza degli Etruschi - o meglio dei loro predecessori dell'epoca micenea - la cui realtà più antica di quella che vedrà la nascita della città, non corrisponde al luogo fisico sul quale poi i coloni erigeranno il loro principale nucleo abitato, ma si riferisce, comunque, al territorio che successivamente sarà controllato dalla colonia. Essa riferisce inoltre, di quella serie di contatti che già da epoche antichissime ebbero nel promontorio di Crotone, un punto strategico per la navigazione nello Ionio. Importante non solo per quanto riguarda le rotte che lo collegavano alla navigazione proveniente dall'Oriente e dalla Grecia, ma anche in relazione all'agevole opportunità di collegamento con il Tirreno. In questa direzione, infatti, la presenza di quelli che possiamo definire dei proto Etruschi, sembra aver lasciato altri segni percepibili.

 

Il ruolo di Poseidone.
A proposito dell'importanza che il controllo delle vie interne del territorio ha rappresentato già in epoche molto precedenti alla fondazione della città, è stata fatta notare l'importanza strategica dell'area del fiume Neto. La particolarità del luogo è ampiamente sottolineata dalla tradizione che, a riguardo, fornisce una rappresentazione ricollegata ai miti di fondazione che coinvolgono i coloni. La tradizione sulla fondazione citata da Strabone, ambienta infatti, lo sbarco degli Achei nell'area della foce del fiume Neto. Non si tratta ancora dei coloni che fonderanno la città, ma di reduci della guerra di Troia (come dice espressamente Strabone in questo passo) che nell'area avrebbero realizzato alcune città cui furono dati nomi di fiumi. La descrizione fornitaci da Strabone si riferisce, infatti, ai contatti stabilitisi in epoca micenea, rendendo conto di avvenimenti che abbiamo già messo in evidenza a proposito del mito di Filottete. Il racconto di Strabone sembra comunque offrire altri spunti, in particolare per la volontà di quest'ultimo di offrire una spiegazione a riguardo delle origini del nome del fiume Neto. Esso deriverebbe da "luogo delle navi bruciate", in relazione all'episodio che avrebbe portato all'incendio delle navi degli Achei da parte delle loro donne Troiane. Come fa notare M. Napoli, quest'interpretazione di Strabone lascia molto dubbiosi, perché appare molto forzata e sembra tradire il tentativo di quest'ultimo di trovare a tutti i costi un significato greco al nome del fiume[29]. Ciò fa pensare che l'origine di questo nome sia diversa, come si è ipotizzato anche in altri casi[30]. Esso potrebbe avere una correlazione con Nethu-ns, nome con il quale gli Etruschi indicavano Poseidone e dal quale deriva Nettuno il nome latino di questa divinità, il cui culto è parte di un patrimonio religioso molto antico, attestato dalle tavolette micenee scritte in lineare B. Quest'interpretazione si lega sia alle caratteristiche di questa divinità, attraverso la quale i Greci usavano rappresentare la sacralità della vita marina, dei fiumi e dei promontori che si protendevano sul mare, sia alla natura dell'area del nostro fiume, che fungeva da punto di attracco e da via di penetrazione per i collegamenti con il Tirreno. Oltre a queste considerazioni, esistono comunque altri riferimenti espliciti, sia al momento storico nel quale il culto di Poseidone sarebbe apparso, sia ai suoi collegamenti accertati con situazioni simili. La presenza di questo culto, riferendosi alle epoche più antiche precedenti alla nascita della città, testimonia quanto sappiamo dell'evoluzione della religiosità dei Greci nel periodo in questione, che vede la contrapposizione ed il passaggio tra il mondo pre greco, dominato dalle divinità della natura com'è Poseidone, ed il mondo greco basato sull'organizzazione cittadina. In diversi casi, Poseidone rende conto di una realtà religiosa precedente alla costituzione cittadina, che cede il passo all'affermazione di divinità diverse[31]. Per quanto ci riguarda più da vicino, possiamo dire che una situazione di questo genere ha riscontri accertati a Poseidonia, che presenta analogie con il sistema cultuale di Crotone ed evidenzia, in particolare, il subentro di Hera a scapito di Poseidone. La mancanza di riscontri oggettivi e la difficoltà di analizzare una fase sulla quale siamo comunque poco informati, consiglia a non spingerci oltre, lasciando quanto abbiamo evidenziato come una realtà che si manifesta in maniera soltanto velata. Rispetto ad essa, invece, altre realtà appartenenti alla sfera del divino, si delineano in tutta chiarezza, a cominciare da Apollo che rappresenta uno dei culti civici alla base della nascita di Crotone, come c'indicano tutta una serie di testimonianze che prendono avvio dalla fondazione della città.

 

L'Oracolo di Apollo.
Superata la fase che cita il passaggio del rozzo Ercole armato di clava, e quella che vede protagonisti gli eroi Achei che vagavano in mare nel tentativo di recuperare la rotta di casa, la tradizione individua i miti che si riferiscono direttamente ai protagonisti della colonizzazione. Si tratta dei capi che guideranno le spedizioni oltre mare, le cui vicende si realizzano sullo sfondo del santuario di Delfi, secondo i precisi precetti dell'oracolo di Apollo. Quest'ultimo era una vecchia chiamata "la Pizia", che la tradizione indica come il personaggio che avrebbe predetto ai coloni il luogo nel quale si sarebbero dovuti recare per fondare le loro città. Seppure l'identità storica della Pizia non possa essere presa alla lettera, diciamo che la sua esistenza è verosimile. Tra i Greci era molto diffusa la pratica di ricorrere agli indovini che vivevano e svolgevano la loro attività presso diversi santuari di tutta la Grecia e che venivano interrogati da singoli individui o dalle delegazioni di intere città, per conoscere il futuro in relazione agli eventi più diversi. Nel nostro caso l'indovino parlava durante la possessione divina come tramite di Apollo e forniva a chi si recava ad interrogarlo un responso (oracolo). Nel caso della fondazione di Crotone l'intervento dell'oracolo di Delfi è ampiamente descritto dalle fonti letterarie. Strabone, citando Antioco di Siracusa, racconta che Miscello in base all'indicazione dell'oracolo partì per un'esplorazione, ma attratto dai luoghi dove intanto stava sorgendo Sibari, ritornò a Delfi per chiedere di poter fondare quest'ultima invece che Crotone[32]. L'oracolo fu però molto perentorio e minacciando Miscello, gli intimò di attenersi all'originaria destinazione. Lo stesso Strabone riferisce poi che Miscello e Archia (il fondatore di Siracusa), prima di intraprendere il loro viaggio verso l'Italia, si recarono insieme a Delfi. Di fronte alla richiesta dell'oracolo di scegliere per la sua città tra la ricchezza e la salute, Miscello scelse quest'ultima mentre Archia ebbe per Siracusa la ricchezza[33]. Rispetto a quanto sostenuto da Antioco, sostanzialmente identica appare la versione offerta da Ippi di Reggio, dove al recalcitrante Miscello, l'oracolo impose la fondazione assegnatagli[34]. Lo stesso episodio è poi riportato da Diodoro siculo che, in maniera più articolata rispetto ai precedenti, cita tre successive consultazioni che Miscello ebbe con l'oracolo[35]. Dopo essersi recato al santuario per ragioni personali ed aver inaspettatamente ricevuto l'ordine di fondare Crotone, Miscello sarebbe ritornato a Delfi una seconda volta, perché non comprendeva la profezia. Successivamente sarebbe ritornato dall'oracolo perché preferiva il luogo assegnato a Sibari e quindi invitato perentoriamente, avrebbe infine acconsentito a compiere il volere di Apollo. Seppure tali episodi letterari possono a prima vista, sembrare poco utili per ricostruire gli avvenimenti che videro veramente protagonisti i coloni, l'analisi di questa tradizione ci consente in primo luogo, di appurare una serie di aspetti complessivi legati alla fondazione della città e di evidenziare i rapporti che essa realizzò, sia in questa fase che in altri frangenti anche di molto successivi. Per comprendere il ruolo dell'oracolo di Apollo nel processo coloniale, non bisogna però pensare che i Greci sbandati ed impauriti, si recassero da una vecchia a Delfi per sapere dove e come fondare una città. Seppure è immaginabile che, da un punto di vista culturale e religioso, i Greci attribuissero alla parola di un indovino una grande considerazione, allo stesso tempo, la descrizione che ci viene fornita, ci porta a ritenere che questa tradizione rappresenti una ricostruzione successiva di fatti che ebbero ragioni ben circostanziate. Bisogna partire dal fatto che l'atto di fondazione di una città è l'avvenimento che è alla base della nascita della comunità, e che l'intervento divino è indispensabile per sacralizzare il fatto compiuto che legittima i Greci al possesso del territorio. E' comprensibile che i Greci sentissero il bisogno di giustificare moralmente la loro azione, facendola apparire come l'adempimento della volontà soprannaturale di un dio perché, per fondare la città viene combattuta una guerra di conquista, immorale anche a quel tempo, che serve ad impadronirsi del territorio di quanti invece, avevano tutte le ragioni morali di difenderlo. Possiamo quindi affermare che l'oracolo servì a legittimare religiosamente a posteriori, la nascita della comunità. Diciamo "a posteriori", in quanto la scelta di fondare la città venne comunque presa dagli uomini e fu frutto della loro volontà, ricevendo successivamente una consacrazione religiosa attraverso l'intervento divino, una giustificazione capace di rendere la scelta pienamente legittima anche dal punto di vista politico. Tale rappresentazione contiene una componente regolatrice degli avvenimenti che è rappresentata dal volere di Apollo, capace di manifestarsi agli uomini per bocca dell'oracolo di Delfi. Apollo, nell'immaginario religioso dei Greci, costituisce la divinità dell'intelletto e rappresenta la ragione divina che raggiunge la mente degli uomini, manifestando loro la comprensione delle cose. In questo senso, non deve sfuggire la violenza insita in Apollo, che a differenza di quella evidenziata da Ercole, ha una valenza molto diversa. Nel primo caso Ercole rende conto di una realtà primordiale, che lo vede armato di clava discendere l'Italia e macchiarsi di una serie di omicidi che rendono possibile la civilizzazione dei popoli che incontra sul suo passaggio. Nel caso di Apollo, invece, si evidenziano ben altri equilibri, dato che egli è il signore del santuario di Delfi, dove, attraverso la ragione che egli sa infondere nella mente degli uomini, le direttive impartite dall'oracolo sono saggiamente accettate da tutti. Violare questo volere significa esporsi alla sua collera, alla sua violenza terribile ed inevitabile, che si manifesta emblematicamente attraverso le frecce che, scoccate con il suo poderoso arco, portano malattie e pestilenze. Queste prerogative ci permettono di inquadrare la sua azione in un ambito che coinvolge i rapporti tra gli stati greci durante la fase coloniale. Bisogna considerare che la colonizzazione non fu realizzata da una nazione ma da singole città, i cui interessi dovevano trovare un accordo che consentisse a tutti una ragionevole possibilità di successo nella spedizione oltre mare. Al tempo non esistevano organizzazioni come le Nazioni Unite che regolavano i rapporti tra gli stati. Le loro relazioni avevano bisogno di essere compiute in ambiti extraterritoriali, come quelli rappresentati dal santuario di Apollo a Delfi, dove gli accordi erano sanciti da patti giurati consacrati dalla divinità. Appare quindi, come alla base della colonizzazione possa essere fatto risalire l'interesse delle diverse città o di interi gruppi etnici (come nel caso degli Achei), attraverso una mediazione rappresentata dalla tradizione relativa all'oracolo di Delfi. La colonizzazione non fu dunque un avvenimento disorganico, ma si realizzò secondo direttive precise ed ebbe successo anche perché i Greci indirizzarono le loro spedizioni senza che esse entrassero in conflitto tra loro. Anzi, nel breve volgere di poco tempo, i Greci furono capaci di occupare tutti i punti chiave necessari a garantirsi il controllo territoriale di una parte molto consistente dell'Italia meridionale, cosa che non avvenne né casualmente né per l'intervento soprannaturale di un dio, ma grazie ad una precisa visione d'insieme dei problemi da affrontare.


Le motivazioni della colonizzazione.
Le motivazioni e gli scopi che spinsero i Greci a giungere sulle coste italiane, seppure siano stati ampiamente dibattuti, sono ancora rappresentati in maniera ipotetica in base alle informazioni generiche fornite dalle fonti letterarie: la colonizzazione, per esempio, avrebbe avuto luogo a seguito di forti tensioni sociali che avrebbero costretto parte della popolazione esclusa dal possesso della terra, a cercare lontano una nuova patria. Il bisogno derivante da una grave crisi, imponeva che una parte dei Greci cercasse altrove i mezzi per condurre la propria esistenza. Questa ricostruzione, se può essere accolta in alcune sue linee generali, a ben vedere contiene alcune zone d'ombra. Risulta, infatti, difficile capire come individui di una condizione così indigente, tale da determinare una migrazione, fossero allo stesso tempo capaci di allestire una spedizione rischiosa e complessa che, sicuramente, richiedeva una notevole disponibilità di mezzi (navi, vettovaglie, armi, etc.). I due aspetti sono così in contrasto tra loro da escludersi a vicenda. La cosa certa è che i coloni intrapresero la via del mare, e quindi è evidente che le ragioni della loro partenza debbano, almeno in parte, essere rintracciate altrove. In primo luogo, bisogna dire che anche con tutte le lacune derivanti dalle poche informazioni di cui disponiamo, la realtà sociale della Grecia durante il sec. VIII a.C. era sicuramente quella di un territorio che aveva subito un netto rivolgimento, derivante dall'invasione dorica e dalla conseguente caduta dei regni micenei. Questi avvenimenti avevano determinato, in diverse aree, non solo l'affermazione di una nuova classe di padroni (i Dori vincitori), ma avevano prodotto anche un rimodellamento della vecchia società micenea. Alle soglie dell'epoca coloniale, dopo i secoli durante i quali si realizzarono quei cambiamenti, che avrebbero prodotto la civiltà greca che meglio conosciamo, ci si presenta, in definitiva, una società trasformata da quelli che abbiamo chiamato i secoli bui del medioevo ellenico, nella quale una fetta abbastanza consistente della popolazione era stata spodestata dei propri averi, delle proprie prerogative e del proprio ruolo. In tale situazione si può quindi considerare plausibile una migrazione, che d'altronde rappresentava tra i Greci una esigenza strutturale legata alla loro organizzazione sociale. Come avremo modo di approfondire, si trattava di una vera e propria scelta tesa a contenere il numero dei cittadini, attraverso l'attribuzione dei pieni diritti sociali e politici ad una ristretta cerchia di soggetti. Quando la città si affollava troppo, si realizzavano le condizioni per una migrazione, con il duplice scopo di assicurare agli emigranti le condizioni necessarie alla loro esistenza ed allo stesso tempo, di conservare la stabilità e la sopravvivenza della comunità d'origine. Ritornando alle città di origine dei coloni Achei, ed anche accanto a tutte le incertezze legate alla nostra scarsa conoscenza di queste realtà, possiamo dire che si trattava di piccoli centri, che ben difficilmente dovettero soffrire problemi di grave sovraffollamento. A ben vedere, il fatto che la tradizione, in alcuni casi, ricordi le città di origine dei coloni, o comunque dei capi spedizione, sembra la testimonianza di un legame più che un'effettiva carta di identità dei coloni. Nel caso degli Achei, essi, come è stato già notato[36], seppure su base etnica sostanzialmente omogenea, sembrano essere stati reclutati su un territorio più vasto di quello riferibile con certezza ad una singola città, come dimostrano le piccole dimensioni dei centri di origine e le indicazioni generiche di alcune fonti che, sorvolando su quest'aspetto, designano i coloni solo con il nome della loro stirpe. Tale riferimento appare in relazione all'organizzazione della realtà achea del Peloponneso che, durante l'epoca in questione, si presenta ancora in una fase pre-urbana, caratterizzata da una serie di insediamenti autonomi di piccola dimensione, sparsi in un territorio ma uniti attraverso luoghi di culto ed istituzioni comuni. Se ne deduce che le spedizioni che portarono alla fondazione delle città achee in Italia, furono realizzate in maniera più articolata e complessa di quella che ci è sommariamente riferita dalla tradizione, attingendo a quella parte di popolazione che nelle condizioni che abbiamo evidenziato, non avrebbe più potuto trovare una propria collocazione. I legami parentali, la necessità di salvaguardare gli equilibri interni dei centri di origine e il loro specifico assetto territoriale, lascia ritenere che tali spedizioni furono organizzate con il concorso ed il reciproco appoggio dei centri dell'Acaia peloponnesiaca, dando luogo ad una collaborazione che non solo è possibile evidenziare in questa fase, ma che potremo rilevare anche per un lungo periodo di vita delle colonie.

 

Le caratteristiche della spedizione.
Restando ancorati ai momenti che precedettero l'arrivo dei coloni in Italia, altri due aspetti che serve chiarire sono quelli legati all'organizzazione della spedizione ed alla sua consistenza. Intraprendere il mare era stata per secoli una sorte obbligata per i Greci che, per la natura stessa dei luoghi che abitavano, erano costretti a fare i conti con quest'elemento. Ciò non significa che navigare fosse a quel tempo una cosa agevole, considerata la semplicità del naviglio a disposizione, la cui principale fortuna era affidata alla capacità e al coraggio dei marinai al quale era affidato. La precarietà della navigazione a quel tempo, imponeva che essa fosse limitata al breve volgere della stagione estiva, quando erano più ridotte le possibilità di incontrare tempeste e l'azzardo di mettersi per mare poteva esser ragionevolmente compiuto. Nella traversata verso occidente, oltre a poter seguire una rotta diretta in mare aperto, i Greci avevano la possibilità di percorrere una rotta costiera meno rischiosa che attraverso il canale d'Otranto raggiungeva le coste pugliesi. A questo punto, doppiato il capo di S. Maria di Leuca (il promontorio Iapigio), il viaggio continuava lungo la costa ionica, seguendo un itinerario che arrivava fino allo stretto ed alla Sicilia orientale, da dove potevano essere prese le diverse rotte che consentivano di compiere il periplo della Sicilia o di entrare nel Tirreno. Tale fu il viaggio che con ogni probabilità intrapresero gli Achei, ripercorrendo quella rotta che per secoli era stata utilizzata dai navigatori delle prime età dei metalli. Ne troviamo una conferma nel preciso itinerario che, come fa notare Pugliese Carratelli[37], è contenuto in uno dei responsi dell'oracolo di Delfi citati da Diodoro siculo, nel quale la Pizia indica a Miscello la rotta da seguire per ritrovare il luogo predestinato dal volere di Apollo. Se possiamo ritenere abbastanza attendibile il percorso utilizzato dai coloni, solo in maniera congetturale possiamo ipotizzare le caratteristiche complessive della loro spedizione. Quale sia stato il numero dei coloni all'atto della fondazione non ci è indicato in maniera esplicita, anche se possiamo immaginare che essi dovevano essere abbastanza numerosi da costituire una nuova comunità autosufficiente, e in modo particolare dovevano poter conquistare il territorio e difenderlo. Se consideriamo poi che le città, anche quelle considerate grandi e floride nelle epoche successive, non superavano in genere poche migliaia di abitanti, possiamo ipotizzare che un migliaio di uomini più le loro famiglie, potessero avere buone speranze di riuscita lanciandosi nell'impresa di fondare una città. Questa supposizione potrebbe essere avvalorata anche dalle notizie che in relazione all'epoca arcaica, riferiscono che il governo della città, ma anche quello di altre colonie (Locri, Reggio, Agrigento, Cuma) era composto da un nucleo ristretto costituito da mille cittadini[38]. C'è poi da considerare che le caratteristiche militari della spedizione e di conseguenza il coinvolgimento necessario di tutti i partecipanti nell'impresa, permette di affermare che i coloni costituirono un gruppo sociale di individui di pari dignità, i cui diritti, acquisiti attraverso la nuova conquista, dovevano essere mantenuti all'interno di una cerchia ben definita. In rapporto alle risorse disponibili, ciò aveva lo scopo di assicurare a ciascuno i mezzi necessari, consentendo allo stesso tempo un ordinato sviluppo della vita civile. La cittadinanza doveva essere abbastanza numerosa da assicurare una valida difesa della comunità, ma allo stesso tempo non doveva superare certi limiti, perché ciò avrebbe paralizzato la capacità di assumere decisioni, sulle quali ognuno aveva oramai acquisito il diritto di influire direttamente. Possiamo invece escludere che la spedizione fosse composta da soli uomini e che non contemplasse la presenza delle famiglie al seguito. L'assenza delle donne avrebbe automaticamente fatto perdere alla comunità le prerogative della razza, un'esigenza prioritaria così sentita tra i Greci, che non solo ci permette di escludere una assenza delle famiglie, ma anche che barbari, sia uomini che donne, abbiano in qualche modo potuto far parte della città anche in epoche successive.


La conquista del territorio e la fondazione della città.
Per diverso tempo si è pensato che l'arrivo dei Greci fosse avvenuto in maniera non traumatica per i barbari, senza provocare un vero e proprio conflitto. Com'è stato messo in luce nell'analisi dei miti di fondazione, ci troviamo invece di fronte ad un'aggressione violenta tendente a stabilire subito i diritti dei nuovi venuti. Se sulla conquista non esistono dubbi, alcuni aspetti poco chiari riguardano i modi attraverso cui tale conquista si sia realizzata. Per prima cosa, appare, a prima vista, difficile spiegare come spedizioni necessariamente contenute, abbiano potuto sistematicamente aver ragione dei barbari, quando questi ultimi erano in possesso di una cultura materiale evoluta, ed in pratica paragonabile a quella dei Greci. In nessun caso, infatti, abbiamo notizia di fallimenti determinati da una resistenza, che non sembra neanche taciuta per convenienza, perché i Greci, in breve tempo, riuscirono a garantirsi un completo controllo del territorio. Seppure sia esistita una sorta di collaborazione passiva dettata dai precetti dell'oracolo, che determinò un'organizzazione di base tendente a non intralciare lo svolgimento delle operazioni, rimane comunque difficile capire come piccoli nuclei di Greci riuscissero a conquistare rapidamente e senza fallimenti, territori vasti e ampiamente popolati. Ciò porta a ritenere che accanto ad un'accorta pianificazione, tali successi devono trovare una spiegazione più articolata. In primo luogo, appare possibile che oltre a seguire un piano preordinato, gli Achei siano arrivati a forme di collaborazione attiva, che potrebbero essere state risolte, sia attraverso un appoggio logistico alle varie spedizioni (viaggio, individuazione, difesa e controllo dei punti di attracco, approvvigionamenti alimentari, allestimento e difesa dei primi insediamenti temporanei, etc.), sia attraverso un vero e proprio aiuto militare. Tali supposizioni, oltre ad essere innescate dalle osservazioni precedenti, nascono da una serie di considerazioni complessive che, da una parte, riguardano l'arrivo sostanzialmente contemporaneo degli Achei, le forme di collaborazione che questi ultimi realizzarono in momenti solo di poco successivi e, dall'altra, la natura della struttura stessa degli insediamenti dei barbari. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, gli scavi relativi alle necropoli dell'età del ferro, hanno evidenziato che tali insediamenti erano costituiti su un modello sociale di tipo piramidale che se poteva contare su di una base abbastanza ampia, era strutturato dal dominio di una élite ristretta di principi guerrieri[39]. Il villaggio di questo tipo riuniva un certo numero di famiglie (un clan) i cui rapporti erano regolati da un capo che deteneva probabilmente sia i poteri religiosi che quelli politici, appoggiato da un ristretto gruppo di guerrieri sufficiente a controllare una popolazione più vasta ma subalterna. In tale contesto sembra sensato supporre che gli Achei che fondarono Crotone, come del resto fecero tutti i Greci che colonizzarono l'Italia, riuscirono ad avere la meglio su queste élite, in virtù del fatto che erano poco numerose e che, con ogni probabilità, non trovarono l'appoggio dei ceti subalterni i quali, passarono dal dominio di un padrone a quello di un altro. Ciò non significa che le popolazioni residenti siano state totalmente asservite dai Greci, ma solo che questi ultimi riuscirono ad imporsi in spazi precisi, spodestandone gli antichi proprietari, che se in alcuni casi finirono, probabilmente, per divenire schiavi dei Greci, in altri mantennero la loro identità politica, stabilendo con la città una serie di rapporti sui quali avremo modo di soffermarci presto. Questo contesto traspare anche dall'osservazione delle aree che furono oggetto dell'arrivo dei Greci. Si può notare che la colonizzazione non interessò quelle che erano presidiate da popolazioni radicate sul territorio in maniera più razionale, con una ben definita identità politica. La Sicilia occidentale in possesso di Fenici, Sicani ed Elimi, l'entroterra campano dominato dalle città etrusche e la Puglia presidiata da Messapi, Iapigi e Dauni, costituirono i limiti della colonizzazione: tali popolazioni dovevano, infatti, necessariamente avere una organizzazione differente da quelle che invece furono assoggettate.

[1] Dion. di Alic., R.A. II, 59, 3.
[2] Strab. VI, 1, 12.
[3] Paus. III, 3, 1.
[4] Tali indagini evidenziano che diversi insediamenti preesistenti all'arrivo dei Greci ".. vivono una florida esistenza per un periodo che giunge fino agli ultimi decenni del sec. VIII a.C.; dopo quest'epoca la ricca documentazione archeologica che li caratterizza si arresta bruscamente." F. Martino, Considerazioni su alcuni bronzi protostorici ed un bacino ad orlo perlato rinvenuti in Calabria, p. 137, in Rivista Storica Calabrese, N.S., anno VI, nr. 1-4, 1985.
[5] Diod. IV, 24.
[6] Giamb. 50;
[7] Servio, Ad Aen., III, 552.
[8] Conone, Narrat., III.
[9] Tzetze ad Licof., 1006.
[10] Ovidio, Meta. XV, 12 e segg..
[11] Licofrone (856-861) descrive una processione funebre di donne abbigliate a lutto che piangono la morte dell'eroe. L'antichità di questa rappresentazione è testimoniata nell'Odissea (24, 60-62), dove il canto delle Muse al funerale di Achille determina il pianto di tutto l'esercito greco.
[12] Nell'Alessandra di Licofrone (856-861), Cassandra predice a Menelao l'approdo al capo Lacinio.
[13] Quando nel 453 a. C. i Sibariti tentarono di rifondare la loro città, secondo la tradizione (Diod. XI 90, 3 - 4) avrebbero affidato l'incarico di guidare la spedizione coloniale a Tessalo.
[14] Ippi apud Zenobio, 3, 42; Antioco apud Strab. VI, 1, 12; Ps. Scimno, 326; Diod. VIII, 17; Strab. VIII, 7, 5; Solino, II, 10.
[15] Paus. III, 3, 1.
[16] Erod. I, 57.
[17] Erod. VIII, 47.
[18] Strab. V, 2, 4.
[19] Strab. V, 2, 3-4.
[20] Erod. I, 94.
[21] Erod. V, 26.
[22] Strab. V, 2, 4.
[23] Strab. VI, 2, 2.
[24] I ritrovamenti archeologici evidenziano che nel sec. VIII e nella prima metà del VII, materiale etrusco è giunto a Torre Galli (nell'area di Tropea), attraverso contatti che come fa notare M. Napoli (op. cit. pag. 274), è ipotizzabile che si siano svolti via mare, data l'assenza di ritrovamenti lungo la via terrestre che passa per il Vallo di Diano. Come però fa notare lo stesso autore, la presenza di questi materiali sulla costa ionica a Canale (nell'area che in seguito vedrà la nascita di Locri) implica invece che essi debbano esservi giunti attraverso un percorso terrestre che presuppone l'utilizzo della via istmica.
[25] Ps. Arist., De Mir. Aus., 107.
[26] Licof. 919.
[27] Secondo Giustino (XX, 1, 16) gli abitanti di Thurii asserivano che la loro città era stata fondata da Filottete.
[28] Strab. VI, 1, 12.
[29] M. Napoli, op. cit. p. 218.
[30] A questo riguardo P.G. Guzzo, partendo dall'indicazione in Strabone (VI, 1, 10) a proposito del nome "femminile" del fiume Sagra, ipotizza un anallenismo sia per quest'ultimo che per il fiume Medma. P. G. Guzzo, L'archeologia delle colonie arcaiche, p. 224, in Storia della Calabria Antica, Cangemi editore, 1987.
[31] Ad Atene la tradizione lo vuole sconfitto da Atena che diviene così la divinità poliade della città, come succede ad Argo e a Corinto dove a Poseidone subentrano Hera nel primo caso e Helios (il sole) nel secondo. D. Musti, Storia Greca, p. 119, ed. Laterza, 1992.
[32] Strab. VI, 1, 12.
[33] Strab. VI, 2, 4.
[34] Ippi di Reggio apud Zenobio, III, 42.
[35] Diod. VIII, 17.
[36] Per quanto attiene alla composizione delle spedizioni ed alla realtà achea del Peloponneso, le considerazioni riportate sono quelle di M. Giangiulio, op. cit. p. 161 e sgg..
[37] G. Pugliese Carratelli, Profilo della storia dei Greci in Occidente, p.149, in I Greci in Occidente, ed. Bompiani 1996.
[38] Per quanto riguarda Crotone vedi Valerio Massimo, VIII, 15.
[39] R. Peroni, La Protostoria p. 132, in op. cit., Cangemi ed. 1987.


capitolo terzo

Città e cittadinanza.
Il periodo che comprende all'incirca il primo secolo e mezzo di vita della città è sicuramente quello che, da un punto di vista delle cronache, ci fornisce i minori elementi per valutare gli avvenimenti che videro protagonisti i Crotoniati. Trovarci di fronte a questo sostanziale silenzio, non deve portarci a ritenere che il periodo, del resto così lungo, sia stato privo di avvenimenti importanti o che sia impossibile risalire a loro seguendo altre strade. Possediamo, infatti, una serie di informazioni, che ci consentono lo stesso di avere a disposizione un contesto abbastanza delineato. Esso riguarda, in primo luogo, la costituzione della città ed i rapporti che essa seppe creare con la sua realtà circostante.
"..la città resta una creazione storica particolare; non è sempre esistita, ma è cominciata a un certo momento dell'evoluzione sociale, e può finire, o essere radicalmente trasformata, in un altro momento. Non esiste per una necessità naturale, ma per una necessità storica, che ha un inizio è può avere un termine." [1] I Crotoniati, come del resto gli altri Greci che realizzarono la colonizzazione dell'Italia meridionale, furono tra i primi uomini che vissero in occidente secondo un'organizzazione cittadina, rendendosi autori della trasformazione del territorio da una situazione pre-urbana, fatta di villaggi, alla situazione urbana della città. Questo passaggio è molto sostanziale e non si esaurisce negli aspetti legati alla dimensione dell'abitato, ma riguarda essenzialmente la sua nuova organizzazione. In origine, tale organizzazione prese l'avvio dalla conquista del territorio, con la conseguente suddivisione del terreno coltivabile e di quello edificabile, in lotti uguali assegnati a ciascun componente della spedizione. Ciò con un preciso riferimento alla condizione d'uguaglianza dei coloni all'atto della fondazione, che si lega alla prerogativa greca che identifica la città con la sua cittadinanza, cioè con la comunità dei suoi cittadini. Ciò non vuol dire che i cittadini fossero tra loro uguali nel senso letterale del termine e che non esistessero differenziazioni. La loro uguaglianza era principalmente espressa dalla volontà di riconoscersi in una legge, che riassumeva le regole della loro convivenza ed andava a "costituire" una sorta di patto sociale, attorno al quale si strutturava la città. I Greci erano molto orgogliosi di quest'organizzazione, che definivano in qualche modo, come la loro libertà. Seppure non è difficile evidenziare in tale presa di posizione una notevole componente retorica, è comunque abbastanza utile tenerne conto, perché in essa si manifesta lo spirito che determinò la nascita della città. In ogni caso, ciò prescinde da principi di uguaglianza, intesi nel senso di una più ampia giustizia sociale, ma riguarda una serie di rapporti, essenzialmente di tipo economico, che un gruppo abbastanza ristretto di individui, seppe creare al suo interno e nei confronti di una discreta massa di sottoposti. Essere cittadino, godere cioè del diritto di cittadinanza, era una condizione che non riguardava tutti gli abitanti di una città, ma era riservata ad un gruppo più o meno ristretto rispetto a tutta la popolazione residente e che naturalmente riguardava solo gli uomini, con la esclusione delle donne e di quelli che non avevano ancora raggiunto l'età adulta. In ogni città greca gli abitanti erano essenzialmente appartenenti a tre gruppi distinti: gli individui di condizione libera, gli schiavi ed i meteci. Questi ultimi erano stranieri, ai quali potevano essere accordati alcuni diritti da parte della città che li ospitava e nella quale risiedevano più o meno stabilmente. Gli schiavi, invece, erano individui completamente privi di diritti e, seppure questa loro condizione li ponesse ai margini della società, dobbiamo sforzarci di pensarli attraverso una visione diversa da quella che ci porta alla mente i negri che, nel secolo scorso, lavoravano nei campi di cotone degli stati americani del sud. Sappiamo, infatti, che quando essi svolgevano il duro lavoro dei campi, lo facevano al fianco dei loro padroni, per i quali questa attività rappresentava la principale occupazione. Oltre a rappresentare una forza lavoro a servizio dei padroni ed a costituire una loro proprietà, gli schiavi, assieme ai meteci, costituivano la maggioranza della classe degli artigiani e dei commercianti, alla quale solo marginalmente aderivano i cittadini. Possiamo quindi affermare che la condizione di schiavo non era tanto legata alla possibilità di subire forme di brutalità (che potevano benissimo verificarsi), ma al fatto di vivere in stato di completa sudditanza e con l'esclusione da qualunque forma di partecipazione alla vita pubblica. Se questa era la condizione dello schiavo, naturalmente opposta era quella di chi viveva in piena libertà. Tale prerogativa era alla base della possibilità di ottenere il godimento dei pieni diritti politici (il diritto di cittadinanza), ma non era da sola sufficiente. Nell'epoca più antica, la condizione di cittadino era attribuita tra i Greci secondo requisiti diversi a seconda delle città, tra i quali il principale era comunque il possesso della terra. I cittadini erano dunque i proprietari terrieri che lavoravano direttamente la terra con l'aiuto degli schiavi e che, in caso di bisogno, si impegnavano a difenderla costituendo l'esercito. Possiamo quindi identificare i primi Crotoniati, come del resto tutti gli antichi cittadini greci, come dei contadini militarizzati, ruoli che, a ben vedere, rappresentano due facce di una stessa medaglia. Solo i possessori della terra, in virtù del diritto conferito da questo possesso (la cittadinanza), erano legittimati ad avere la parola e a poter influire sulle scelte comuni. Tale potere che si manifestava sia nei confronti degli altri abitanti della città che, eventualmente, verso altri gruppi sociali esterni ad essa, aveva bisogno di essere mantenuto contro indesiderate intromissioni, e ciò implicava che la forza militare della città fosse costituita essenzialmente dalla sua cittadinanza. Ne consegue che le dimensioni di questa cittadinanza erano necessariamente contenute e rigidamente mantenute, perché i detentori di questo potere, per motivi naturali ed intuibili, avevano poca voglia di dividerlo con altri.

 

Istituzioni e forme di governo - le basi di una società aristocratica.
Se quelle che abbiamo descritto, possono essere considerate solo delle caratteristiche generiche che individuano un tipo di organizzazione che poteva articolarsi anche in forme molto differenti, particolari condizioni si rendono manifeste nella realtà che portò alla formazione di Crotone e delle altre colonie greche d'occidente. In primo luogo, come abbiamo sottolineato, ci troviamo di fronte ad una serie di nuove fondazioni da parte di individui che, a prescindere dalla loro patria di origine, avevano costituito delle nuove comunità, politicamente autonome e sganciate da quest'origine. Tale evidenza presenta aspetti molto particolari proprio nel caso di Crotone perché, come è stato posto in evidenza[2], la fondazione della città fu realizzata da individui che provenivano da un'area (l'Acaia peloponnesiaca) dove, al tempo, non solo non si era ancora realizzata una realtà urbana, ma dove tale realtà si affermerà solo diverso tempo dopo. Questa constatazione ci permette di porre in corrispondenza diretta colonizzazione e nascita della realtà urbana, permettendoci di affermare che quest'ultima, in definitiva, appare come una conseguenza della prima. La natura stessa di questa fondazione e della complessa impresa che i suoi autori dovettero realizzare, ci permette poi di affermare che i coloni costituirono necessariamente un gruppo sociale di individui di pari condizione (la prima cittadinanza dei Crotoniati), in virtù del fatto che ciascuno aveva partecipato e combattuto per la conquista e la costituzione della nuova patria. Tale prerogativa fondamentale spettante ai fondatori, veniva in seguito ereditata dai discendenti, che ricevendo la proprietà terriera dei padri, ne ricevevano naturalmente anche tutti i diritti derivanti. In questo modo, attraverso le generazioni future, la cittadinanza aveva la possibilità di perpetuare se stessa, costituendo una vera e propria casta dominante della quale facevano parte solo gli aristocratici, gli aristoi, che significa letteralmente "i migliori". Questa cittadinanza si riuniva in un'assemblea dove le decisioni venivano assunte a maggioranza e che, secondo la tradizione, sarebbe stata composta da mille individui[3]. Quest'organismo escludeva gli elementi subalterni dell'organizzazione cittadina (gli schiavi ed i meteci), ma allo stesso tempo limitava anche i diritti di chi era di condizione libera visto che la discendenza coloniale manteneva una serie di privilegi e precludeva ad altri di entrare nel numero chiuso dell'assemblea, che andava a configurarsi come un vincolo della costituzione della patria[4]. Oltre ad entrare nel merito delle questioni che riguardavano la vita della comunità, l'assemblea aveva anche il compito di designare al suo interno una serie di magistrati, relativamente ai quali esistono alcune indicazioni generiche in un frammento di Timeo tramandato da Ateneo[5]. Come comunque avveniva in altre realtà del mondo greco, possiamo immaginare che esistessero a Crotone diverse figure di questo tipo che su mandato della città e per un certo tempo, svolgevano diverse funzioni di interesse pubblico. In maniera individuale, oppure collegialmente, essi potevano essere incaricati di amministrare la giustizia, di occuparsi della gestione dei santuari e di attività d'interesse pubblico o, in caso di bisogno, di assumere il comando della guerra.

 

L'area urbana.
La città greca non era qualcosa di paragonabile ad una moderna. Essa, a differenza di quelle nelle quali oggi viviamo, non costituiva la provincia o la capitale di una nazione, essa era tutta la nazione, tutto lo stato: dicendolo in greco era una polis. Ciò è maggiormente comprensibile se si pensa che la polis, oltre a comprendere generalmente un'area urbana principale (asty), associava allo stesso tempo tutto un territorio (chora), dove potevano esistere una serie d'insediamenti minori e di fattorie e dove comunque si trovavano i campi coltivati. Accanto a quest'estensione territoriale, per le esigenze più diverse, la città estendeva la sua influenza e quindi un suo controllo, su di un'area più vasta che comprendeva i pascoli e i boschi, le vie di comunicazione, le aree di approdo o quelle dove si realizzava il reperimento delle materie prime. Dalle indagini ed in base agli scavi realizzati, sappiamo che l'area urbana della città greca occupava lo stesso luogo di quella moderna. Sappiamo anzi che l'area antica era sensibilmente più vasta, estendendosi tanto alla destra che alla sinistra del fiume Esaro, che la divideva a metà[6]. Quest'area non deve essere considerata come una superficie coperta da costruzioni sin dal periodo più antico, ma solo come suscettibile di diventarlo. Gli Achei, infatti, pianificarono la sua realizzazione attraverso una definizione dello spazio che tenesse conto di un possibile sviluppo nel tempo ed in considerazione di una serie di precise destinazioni d'uso, dimostrando come nella loro mente fosse ben chiaro non solo l'assetto dell'abitato, ma anche il ruolo che la città avrebbe dovuto svolgere nel tempo a venire. Ciò risalta dalla stessa ubicazione che gli Achei individuarono per il loro nuovo insediamento. Crotone fin dalla sua fondazione si gioverà di una posizione molto felice, più volte ribadita[7] e testimoniata dall'antica frequentazione del luogo che è proseguita fino ai giorni nostri. Le ragioni di questa frequentazione così lunga ed ininterrotta, sono da ricercare nelle caratteristiche del luogo che, per la sua posizione, permette un controllo strategico dei movimenti costieri lungo l'arco ionico ed allo stesso tempo, di quelli terrestri verso il Tirreno. Crotone si poneva in connessione diretta per i navigatori che provenivano da oriente e si muovevano lungo la rotta occidentale e disponeva di un retroterra dalle numerose risorse che potevano certamente assicurare il pieno soddisfacimento delle esigenze della nuova comunità. Per realizzare le loro case, gli Achei prescelsero la pianura costiera dominata da alcune alture attorno alla foce del fiume Esaro. Tenendo conto delle caratteristiche del luogo, l'abitato fu organizzato attraverso un sistema composto da alcune strade principali parallele alla linea di costa, incrociate a distanze regolari, da strade d'ordine secondario. Questo reticolo di vie delimitava gli isolati, all'interno dei quali trovavano posto le costruzioni. Tale sistema consentiva di definire gli ampliamenti futuri che sarebbero poi avvenuti lungo i prolungamenti degli assi stradali principali, ed in vista di ciò ampio spazio rimaneva quindi libero senza costruzioni. Seppure l'indagine archeologica non ci permette ancora di conoscere nel dettaglio molti aspetti particolari di quest'abitato, è possibile avere un'idea dei suoi limiti osservando la localizzazione delle aree destinate alla sepoltura dei morti (necropoli). Per esigenze di culto, esse si trovavano al di fuori e nelle immediate vicinanze dello spazio urbano, in corrispondenza delle vie e degli accessi principali. A riguardo dell'individuazione topografica dell'area urbana della città, sono da considerare molto importanti le testimonianze secentesche del Nola Molise[8]. Le sue indicazioni insistono nel riconoscere tre nuclei principali ricadenti nel tessuto urbano della città: il colle Caudino (l'attuale collina della batteria), il colle la Rotonda (Cimone Rapignese) ed il colle della Cappellina sul quale sorge oggi la parte più elevata del centro storico, identificabile con la timpa della Capperrina. La sostanziale coincidenza tra l'area identificata dal Nola Molise e quella delimitata dalla localizzazione delle necropoli, consente di poter circoscrive l'area urbana della città. Tenendo conto della natura e delle caratteristiche dei luoghi, gli Achei pianificarono l'impianto della loro città, in maniera tale che essa soddisfacesse le esigenze abitative del singolo prevedendo per tempo una serie di spazi pubblici funzionali alla collettività. Ciò non significa che fin dai primi momenti i coloni realizzassero le imponenti opere che caratterizzeranno la città nelle epoche successive, ma solo che essi pianificarono lo spazio disponibile. Si trattava di quello destinato alle sepolture dei morti e di quello relativo ai santuari delle divinità cittadine, alcuni dei quali sorsero in un grande spazio aperto (la piazza o agorà) che era posto in una posizione centrale e rappresentava il luogo di mercato e di incontro destinato agli scambi ed alle riunioni. In posizione dominante rispetto alla campagna ed alla marina[9], sorgeva l'acropoli che, con funzioni analoghe a quelle rintracciabili in altri casi, rappresentava una rocca munita in vista di una difesa estrema. Essa occupava le alture che attualmente ospitano la parte più elevata del centro storico, mentre in prossimità dell'Esaro[10] si trovava il porto che sfruttava il tratto costiero tra la foce del fiume ed il promontorio[11].

 

Il territorio della città.
Aver tratteggiato, pur sommariamente, la dimensione urbana della città, non rende pianamente evidente l'impatto che la sua fondazione determinò nella nuova realtà. Con i loro arrivo, infatti, gli Achei non solo si impadronirono del suolo che serviva come residenza, ma dovettero reperire nelle vicinanze dell'abitato il terreno coltivabile necessario alle loro esigenze. Bisognava poi controllare adeguatamente le vie di comunicazione terrestri e marittime, le aree di pascolo e, non ultime, quelle dove venivano reperite le materie prime (pietra, legname e metalli). La nostra premessa apre dunque alcuni interrogativi. Quale estensione ebbe questo territorio durante la fase che stiamo trattando? Quali forme i Crotoniati utilizzarono per controllarlo ed in che modo essi vi si distribuirono? Ed inoltre, con quale o con quali rapporti essi attuarono la loro convivenza con i loro vicini? Per risalire a questo contesto, in primo luogo, prenderemo o, meglio, riprenderemo in considerazione i culti cittadini più antichi. Tale aspetto è veramente determinante per capire gli avvenimenti pertinenti a questa fase, sia perché nella società greca gli aspetti religiosi erano intimamente legati a quelli politici, sia perché la nascita della civiltà urbana determinò una rielaborazione dell'immaginario religioso dei Greci che fu adattato e modellato sulla nuova realtà sociale appena costituita. Dato che ogni città aveva una propria organizzazione politica ed un suo ambiente sociale e naturale, aveva di riflesso anche una propria organizzazione della vita religiosa. Ogni città aveva un pantheon, un gruppo particolare e complesso di divinità, che rifletteva le caratteristiche della comunità che lo aveva immaginato e quelle del luogo che l'aveva accolta.

 

Hera, divinità poliade degli Achei.
Per quanto riguarda il pantheon dei Crotoniati, possiamo dire che il culto più importante e più antico di cui abbiamo notizia è quello di Hera, che può essere riconosciuta come la divinità poliade (protettrice) della città. Ciò si evidenzia anche nel caso di altre colonie achee come Sibari e Metaponto, dove il culto di Hera si lega alle origini di queste città. Nel caso di Poseidonia l'avvento della divinità è posto, addirittura, in relazione alle vicende degli Argonauti, ai quali la tradizione fa risalire la costruzione del tempio di Hera Argiva alla foce del Sele, con un riferimento al patrimonio religioso degli Achei dell'epoca micenea. Per quanto riguarda la sua antichità, possiamo dire che questo culto, così come lo conosciamo in epoca storica, ha una sua ascendenza in una religiosità più remota, che si riferisce ad una divinità femminile ancora più arcaica. Tale divinità può essere identificata nella figura della dea Madre che non rappresenta un aspetto esclusivo della religiosità dei Greci, ma si ritrova nelle mitologie di diversi popoli della terra. L'importanza della dea Madre è comunque evidente nelle antiche culture del Mediterraneo, dove essa si pone come una delle divinità principali, attraverso cui si rappresenta il principio universale della fecondità e quindi la terra con le qualità generative e si rende conto del racconto mitologico dell'origine dell'uomo e del suo primo apparire nel mondo. Nelle civiltà di tipo agrario, la dea Madre s'identifica dunque con la terra con l'essenza stessa della natura, la rigenerazione ciclica, l'origine delle piante e dei frutti che consentono la sopravvivenza degli esseri umani e degli animali.

 

Il santuario di Hera sul capo Lacinio.
Il santuario di capo Lacinio è sicuramente uno dei luoghi sacri più antichi e più importanti legati alla presenza di Hera sul territorio della città, come ci è testimoniato dai richiami della tradizione[12] e dalla stessa ambientazione dei miti di fondazione. Quest'importanza, abbondantemente testimoniata anche dalla ricerca archeologica e riferibile ai primi momenti di vita della città, è in relazione al controllo strategico che il promontorio Lacinio realizzava sul percorso della rotta occidentale, ed a una serie di significati che cercheremo di evidenziare, facendo tesoro degli aspetti del culto di Hera che abbiamo già cominciato a scorrere e soffermandoci su alcune caratteristiche degli edifici che lo componevano. Diciamo, innanzi tutto che, parlando del santuario, dobbiamo sforzarci di spostare la nostra attenzione dai resti del tempio al quale appartiene la colonna superstite, a tutta l'area che oggi accoglie i ruderi che coprono la punta estrema del promontorio. Un santuario, infatti, era sostanzialmente un'area consacrata ad una o più divinità che poteva prevedere la presenza di un tempio e di altre costruzioni o, più semplicemente, solo una delimitazione del terreno che s'intendeva dedicare alla divinità. Tale area (temenos) era nettamente distinta da quelle pertinenti ad ambiti diversi, attraverso confini sacri che erano tracciati molto precisamente sul terreno. Da un punto di vista religioso, ma anche sociale e politico, ogni santuario rappresentava la meta delle feste che si realizzavano in onore delle divinità ed era il luogo dove si svolgeva il rito in loro onore. A differenza delle situazioni che ci sono più familiari, tali riti avvenivano nello spazio aperto e non all'interno del tempio che, se presente, faceva bella mostra solo con la sua architettura esterna. Quest'ultimo era considerato la casa della divinità cui era dedicato, nella quale veniva conservata una statua o qualche altra sua rappresentazione. Questo simulacro era riposto nella parte più interna del tempio che era inaccessibile ed interdetta a chiunque, salvo in occasione della festa quando era esposto. Il rito iniziava con un corteo nel quale trovavano posto tutti i cittadini e dove le autorità e le personalità più importanti avevano un posto chiaro e visibile. La cerimonia era una riunione collettiva e costituiva un'occasione nella quale ciascuno affermava ed esibiva il proprio ruolo all'interno dell'organizzazione cittadina. Essa serviva, inoltre, a rappresentare il legame che i cittadini avevano con il loro territorio e con le divinità che ne garantivano la tutela. Tale rappresentazione trovava il suo culmine all'interno del santuario dove, al termine del corteo, si predisponeva e si realizzava il sacrificio: la parte fondamentale del rito. Il sacrificio consisteva nell'uccisione di un animale su un altare posto all'aperto (nelle occasioni più importanti uno o più bovini), dove alcune parti venivano bruciate ed in questo modo offerte alla divinità, mentre il resto veniva cucinato e mangiato dai partecipanti. Dato che tutti i cittadini partecipavano a questo pranzo in comune, diciamo che ciò ribadiva e rappresentava il legame che li univa come comunità nell'ordine politico della città. Ritornando alle caratteristiche del santuario di Hera al capo Lacinio, e facendo riferimento alle epoche più antiche, gli archeologi individuano nell'edificio B, il primo ed originario luogo di culto della dea (primo quarto del VI secolo)[13]. Gli importanti e preziosi ritrovamenti hanno permesso di evidenziare il suo ruolo particolare che, comunque, è possibile mettere in luce anche attraverso scoperte di minore valore oggettivo, ma di notevole importanza in relazione alla possibilità di ricostruire la fase più antica di occupazione del promontorio da parte dei coloni. In particolare, esse riguardano un "cippo" e ciò che è stato chiamato "il basamento quadrato", quest'ultimo interpretato come la base sulla quale avrebbe trovato posto il simulacro della dea[14]. La presenza di questo cippo preesistente all'edificio[15], e il fatto che il basamento risulti eccentrico rispetto all'asse mediano di quest'ultimo, rispettando, con piccoli adattamenti, dei limiti posti sul terreno in precedenza[16], stanno a significare che nella realizzazione dell'edificio B, costruito successivamente attorno a questi elementi, gli Achei tennero in debita considerazione una serie di punti limite che hanno fortemente condizionato la sua realizzazione. Questi limiti che, considerato il contesto, devono essere riconosciuti come limiti sacri, sono relativi ad una fase precedente all'organizzazione monumentale del santuario. Essi rappresentano dei segni riferibili alla sacralizzazione dell'area conseguente alla fondazione che, per quanto abbiamo detto in precedenza, vanno a ricalcare la tomba (vera o presunta) degli eroi fondatori che legittima l'avvenuta conquista. Il processo di acquisizione che investe questo luogo, al quale sono riferiti i miti di fondazione che vedono protagonista Ercole e al quale la tradizione lega la morte di Crotone e di Lacinio e la tomba di Achille, si articola in più fasi. Secondo uno schema consueto, successivamente, il terreno che ospita la tomba dell'eroe diviene punto di riferimento per il culto delle divinità olimpiche. La tradizione relativa al Lacinio[17] riferisce, infatti, che esso sarebbe stato dato in dono ad Hera da Theti, madre di Achille, sottolineando, in questo modo, il passaggio tra la fase eroica degli eroi fondatori e il sorgere dei culti civici della città. In sostanza, possiamo quindi dire che i segni ritrovati dagli archeologi nell'edificio B, testimoniano un'operazione di marcatura del territorio che è possibile far risalire all'epoca di fondazione della città e che si realizzò attraverso la sacralizzazione di un'area, la cui importanza è da mettere in relazione al controllo del territorio. In questo senso è possibile identificare altre aree con caratteristiche simili a quella descritta.


La tutela di Hera sul territorio della città.
Un altro aspetto del culto di Hera che deve essere messo in evidenza (al fine di evidenziare il suo legame con la costituzione della città) è rappresentato dal fatto che, nella visione religiosa dei Greci, essa rappresenta la divinità garante del matrimonio ed, in particolare, della legittimità dell'unione matrimoniale. Tale legittimità è da porre in relazione al fatto che il matrimonio darà luogo alla nascita di figli legittimi che avranno tutti i diritti legati a tale prerogativa. Nella mitologia greca Hera rappresenta la sposa legittima di Zeus. Queste caratteristiche chiariscono ulteriormente le ragioni che determinarono l'adozione del culto di Hera da parte degli Achei. Ciò avvenne perché l'aspetto di legittimità legato al matrimonio è connesso con la costituzione della città e con la sua perpetuazione, legandosi alla nascita delle generazioni future che potranno far valere i diritti acquisiti dai coloni attraverso la conquista. In questo senso, il culto si lega alla tutela dello spazio territoriale della città, ma non solo, perché esso servì a regolare anche il rapporto di vicinato con i barbari che continuarono a vivere in alcune aree comunque esterne alla città. Ma andiamo con ordine. Da alcuni ritrovamenti archeologici, sappiamo che Hera veniva venerata al capo Lacinio come eleutheria (liberatrice). Quest'attributo è in relazione ad un aspetto molto importante legato al diritto di asilo di cui godeva il santuario. Il diritto di asilo, (asylia) faceva sì che in quest'area, consacrata alla dea e considerata extraterritoriale, si potesse godere della protezione della divinità ed essere considerati inviolabili. Bisogna pensare che, quasi fino ai giorni nostri, chiunque poteva rifugiarsi in una chiesa ed appellarsi all'inviolabilità del luogo sacro per non potere essere perseguitato dalla legge. Quest'inviolabilità garantita da Hera è rappresentata nel racconto di Livio, quando egli riferisce che, sotto la protezione della dea, tutti gli animali potevano pascolare liberamente nel suo bosco sacro senza subire attacchi dagli uomini o dalle fiere e che, alla sera, essi ritornavano ordinatamente e per ciascuna specie ai propri ricoveri[18]. Il quadro che è possibile recuperare dalla rappresentazione fornitaci da questo racconto, mette in evidenza che l'azione della divinità (la protezione degli animali), avviene in un contesto che non è quello della città. Tale azione si materializza in un ambiente selvaggio (il bosco) che allude ad un'area non abitata da Greci (e quindi selvaggia) ma da soggetti (gli animali), sui quali, in ogni caso, ricade la protezione di Hera. Il riferimento è dunque ad un'area abitata dai barbari che vivono la loro esistenza sotto tutela degli Achei che, nei loro confronti, esercitano una protezione garantita dal diritto di asilo concesso da Hera. Questa condizione che prevede l'inviolabilità dei barbari, è legata all'accettazione dell'autorità religiosa della dea che, in poche parole, sottintende l'accettazione dell'autorità politica dei Crotoniati. Chi vuole godere dell'asilo, come abbiamo detto, deve mettersi sotto la loro protezione che materialmente si realizza quando si varcano i confini sacri del santuario. Se riflettiamo, capiamo che l'autorità di Hera non si limita solo all'area sacra del santuario, ma si estende a tutto il territorio della città, perché Hera rappresenta la divinità poliade: la divinità che rende sacro l'ordine politico della città. Anzi, come evidenzia il racconto di Livio, la sua autorità supera questi limiti e raggiunge il territorio abitato dai barbari. Non a caso, i santuari di Hera che sono stati individuati si trovano localizzati sui confini della città, perché essi rappresentano dei punti di frontiera vigilati dalla divinità che sovrintende sul loro rispetto. Con la stessa funzione, infatti, anche gli altri Achei costruirono dei santuari dedicati ad Hera ai confini del loro territorio, come è stato evidenziato a Poseidonia e Metaponto. Attraverso il culto di Hera è quindi spiegabile quale tipo di strategia i Crotoniati adottarono per controllare il territorio che serviva alle loro necessità, dove si realizzavano importanti attività economiche, tra le quali la principale era la pastorizia. Gli Achei permisero ai barbari di continuare a vivere nei loro villaggi godendo di una pace garantita ma vigilata attentamente, come si desume da un altro attributo della divinità. Hera, infatti, viene anche ricordata come hoplosmia[19], la dea guerriera armata di scudo (hoplon), cosa che vale ad indicare che i Crotoniati sono pronti a scendere in guerra se l'autorità di Hera viene messa in discussione. In questo caso è possibile evidenziare che la violenza con la quale gli Achei imposero ai vicini la loro presenza, non appare circoscritta al momento del loro arrivo, ma rimase a caratterizzare il tipo di rapporto che fu instaurato successivamente, come evidenziano gli attributi di Hera. Tale rapporto non fu generalizzato, come avremo modo di vedere e come sinteticamente già si percepisce dai miti di fondazione, dove risalta la netta differenza che la tradizione riconosce alle figure di Lacinio e di Crotone. Un'ultima considerazione riguarda il sacro bosco di Hera[20] che si individua come un ambiente esterno ai confini politici della città abitato dai barbari. Tale ambiente, pertinente ad Hera, non appare limitato nei confini del santuario, ma ai suoi confini, come c'indicano le caratteristiche del culto che abbiamo evidenziato. Lo stesso Livio lo riferisce esplicitamente, quando afferma che esso era "sacro per tutte le genti della regione"[21]. Ciò ci permette di individuarlo nel vasto retroterra della città ed identificarlo con la grande superficie boschiva che l'occupava un tempo[22]. In questo senso, la stessa situazione si evidenzia ad ovest della città, dove il grande bosco della Sila rappresenta un'area con caratteristiche analoghe alla precedente.

 

Città, territorio ed aree d'influenza.
Per quanto detto, siamo finalmente in grado di abbozzare una topografia del territorio politicamente soggetto alla città (polis) che, a questo punto, coincide con il territorio protetto da Hera ed a lei consacrato. Esso comprende il tratto costiero fino al capo Lacinio, estendendosi nell'interno limitatamente ad alcune aree d'interesse strategico per il controllo delle principali vie di accesso alla città e al suo spazio agrario. Tale situazione è identificata dal santuario di Hera in località Giammiglione di Crotone e da quello di località S. Anna di Cutro[23]. A questi si aggiungono, con funzioni analoghe, il santuario di Hera di loc. Timpone del Gigante a Cotronei (prima metà del VII secolo a.C.), e quello che doveva sorgere a S. Pietro in Niffi, in prossimità del più importante guado del Tacina. Il primo posto lungo l'asse stradale interno che raggiungeva il Tirreno partendo dalla vallata del Neto, il secondo lungo la via che raggiungeva l'istmo di Catanzaro[24]. Appare dunque, come il territorio soggetto agli Achei comprendesse due tipi distinti di aree che differivano tra loro per una diversa giurisdizione operata dalla città. Le prime (polis) erano quelle dove gli Achei abitavano un nucleo urbano principale (asty) e forse una serie di insediamenti minori[25], la cui formazione è però da ritenersi pertinente ad epoche successive. Si tratta di realtà comunque ricadenti in un territorio (chora) dove si estendevano i campi coltivati e che comprendeva i principali punti di controllo delle vie di comunicazione, segnalatici dalla topografia dei luoghi e da una serie di santuari di confine. Superati tali confini che rappresentavano l'estensione politica della città, troviamo le aree dove gli Achei non realizzarono insediamenti, ma che furono poste sotto un loro rigido controllo. Ciò avvenne attraverso la creazione di uno spazio extraterritoriale, dove la presenza dei barbari fu consentita in virtù di una condizione di asilo garantita dagli Achei. Esse sono: l'altipiano di Isola, con i suoi approdi e le sue cave di pietra da costruzione così necessaria alla città e la Sila, dove si realizzavano tutta una serie di attività legate allo sfruttamento della montagna tra cui spicca l'allevamento. Sorprendentemente, tale situazione è ancora segnalata dai toponimi attuali che fanno riferimento alla condizione di asilo. Da asylia deriva l'attuale Isola C.R.[26] mentre, viste le analogie, possiamo ritenere che, anche in assenza di una citazione esplicita, la stessa origine abbia la Sila, il territorio boschivo che, assieme al precedente, circonda a sud ed ad ovest quello della città.

 

La Terra dei Choni.
Anche a nord della città abbiamo un chiaro riscontro a questa situazione, anche se quest'area presenta una situazione più articolata. Partendo dalla città e proseguendo verso nord, ci addentriamo al di là dal fiume Neto, nell'area abitata dai Choni, la cui organizzazione urbana è posta in relazione al mito di Filottete. L'interpretazione degli studiosi in merito alle notizie riferite all'identificazione delle città dei Choni è stata e rimane controversa. Per quanto ci riguarda, non cercheremo nemmeno di attribuire un'ubicazione ai centri ricordati dalla tradizione letteraria. La cosa che ci sembra invece possibile è quella di stabilire il tipo di rapporto che la città instaurò con essi. Tale rapporto deve essere stato profondamente diverso da quello che abbiamo descritto precedentemente, perché in questo caso non troviamo più tracce del culto di Hera, ma appare molto significativamente quello di Apollo. Cerchiamo di capire la differenza. Le caratteristiche di questo culto sono in parte già state sottolineate, quando abbiamo cercato di analizzare il ruolo dell'oracolo delfico nella fondazione. Esso rappresenta il dio dell'intelletto e della ragione, il suo ruolo sovrintende a ciò che implica la comprensione delle cose. Quest'aspetto è radicalmente diverso rispetto a quanto descritto per Hera, che esprime una tutela unilaterale da parte degli Achei che non implica mediazioni. Questa differenza spiega il ricorso ad un culto diverso. Ciò avvenne perché in quest'area di confine giungevano non solo gli interessi dei Choni, ma anche quelli di un potente vicino quale era Sibari. Che le cose da questa parte siano andate diversamente rispetto a quanto abbiamo evidenziato nelle aree a sud e a ovest di Crotone non deve sorprendere. La tradizione, seppure deve essere interpretata alla luce di una ricostruzione greca tendente a salvare le apparenze, non solo attribuiva ai Choni una remota origine greca, ma elaborò anche degli episodi specifici per quest'area, come abbiamo potuto evidenziare a proposito del mito di Filottete e a riguardo del passo di Strabone che ambienta alla foce del Neto lo sbarco degli Achei[27]. Che la tradizione si esprima in questi termini è imputabile a precise ragioni di convenienza dato che, viceversa, sappiamo che l'argomento sarebbe stato sostanzialmente taciuto. Queste ragioni possono essere ricondotte all'interesse concomitante di Crotone e di Sibari di controllare questa vasta area senza creare attriti pericolosi. Il territorio dei Choni, interposto tra le due città achee, venne quindi utilizzato come un'area cuscinetto che, fatte salve alcune prerogative dei barbari residenti, andò a costituire un'area controllata dagli Achei ma non occupata fisicamente. Non a caso qui è stato rinvenuto il santuario di Apollo Alèo, cui allude uno degli oracoli di fondazione, i cui ruderi sono stati individuati in località Isola di S. Pietro a punta Alice presso Cirò Marina. In questo caso le caratteristiche di extraterritorialità dell'area sono evidenziate dall'epiclesi (Alèo) che evidenzia la condizione di asilo garantita dalla divinità[28] alla quale si riferisce la toponomastica medievale e quell'attuale del luogo[29]. Come vediamo, pur in presenza di una divinità diversa, la sua funzione è quella di garantire l'extraterritorialità e l'inviolabilità dell'area e dell'accordo che consentì la consacrazione e l'erezione del santuario. Anche in questo caso le caratteristiche di Apollo rispecchiano la situazione che abbiamo illustrato per Hera. Come essa ammonisce da qualsiasi violazione a proposito del suo aspetto guerriero (hoplosmia), e concede asilo a chi si mette sotto la sua protezione (eleutheria), così Apollo esprime queste due caratteristiche ma, analogamente a quanto abbiamo evidenziato nei rapporti intrecciatisi tra le colonie durante la fondazione, la sua azione coinvolge una realtà mediata che interessa i Greci. Ciò risalta dalle caratteristiche proprie di questo culto, evidenziate dagli attributi che la tradizione gli riconosce, raffigurandolo con la lira in una mano, simbolo delle sue capacità di raggiungere la mente degli uomini attraverso la ragione, mentre regge nell'altra l'arco con il quale punisce chi viola il suo volere divino. In questo caso proprio un episodio successivo che, presso il santuario, riferisce la sottrazione delle frecce di Filottete da parte dei Crotoniati[30], testimonia, come vedremo, la fine del rapporto che abbiamo descritto. Se nell'atto della consacrazione-fondazione sono simbolicamente racchiusi gli elementi relativi alla regolamentazione dei rapporti, in quello della sottrazione si evidenzia la loro rottura, attraverso il coinvolgimento dell'elemento (le frecce) che da sacralità a tutto l'avvenimento. Esso comunque, non è pertinente al momento che stiamo trattando, per i motivi che abbiamo esposto ed in relazione ai rapporti che implicavano Sibari, esso si riferisce alla fase che vedrà l'apertura di un conflitto tra Crotone e quest'ultima, e che avremo modo di valutare anche con riferimento ai fatti appena esposti.

 

Una società agraria.
Avere esposto le modalità con le quali i primi Crotoniati si stabilirono nel territorio della loro città, ci consente ora di approfondire maggiormente la loro organizzazione sociale. Essa, in primo luogo, dimostra di riflettere le caratteristiche di una società di tipo agrario, in quanto, almeno durante l'epoca arcaica, i contadini erano a Crotone come in qualsiasi altra città greca, la maggioranza della società maschile e la totalità della casta dominante. I Crotoniati, come i contadini greci descritti da Esiodo nelle Opere e i giorni, coltivano la terra di loro proprietà, dalla quale traevano quanto serviva per vivere e dove erano impegnati con la loro famiglia e con un certo numero di schiavi. Accanto alla figura del contadino proprietario esisteva, comunque, anche quella del semplice lavoratore agricolo. I casi della vita portavano alcuni a dovere impegnare le proprie braccia in cambio di una retribuzione in natura, accettando una condizione che era considerata profondamente umiliante e lesiva della dignità dell'uomo. Considerando il particolare assetto delle città nella nuova realtà coloniale, il profilo dei contadini che la costituirono può essere meglio delineato, rispetto alle indicazioni generiche che abbiamo appena esposto. In primo luogo, la loro residenza in città determinava che i terreni dove si recavano a lavorare non fossero troppo distanti dalle loro case e fosse quindi possibile raggiungerli agevolmente. Non tutte le attività rurali potevano essere condotte dal singolo nel proprio podere, alcune, come ad esempio la pastorizia, imponevano spostamenti e lunghe residenze nelle aree di pascolo e per tale motivo erano affidate al personale di condizione servile. Ciò determinava che, da un punto di vista del suo sfruttamento, il territorio agrario fosse suddiviso in aree sottoposte a coltivazione ed aree non coltivate, nelle quali si svolgevano comunque una serie di importanti attività rurali. Le prime, subito fuori della città, erano state lottizzate tra i coloni al tempo del loro arrivo. L'attività principale che vi si praticava era quella legata alla coltivazione dei cereali (grano, orzo), in misura da soddisfare le esigenze della città e, nel caso si rendesse conveniente, di realizzare delle esportazioni verso altre aree dove tale coltivazione era meno redditizia o scarsamente praticabile. Si deve pensare che, per i Greci e per gli altri popoli antichi, la fertilità di una zona era legata essenzialmente alla possibilità di produrre cereali in misura adeguata, dato che questi generi costituivano la base della dieta alimentare del tempo. Essa contemplava anche l'uso di legumi e di diverse verdure, mentre altre produzioni erano legate alla coltivazione della vite e dell'olivo, oltre a diverse piante da frutto tra le quali una particolare importanza aveva il fico. Accanto a queste produzioni che ogni cittadino realizzava nel proprio podere, n'esistevano altre che si producevano in aree non coltivate e che rappresentavano una proprietà comune ed indivisa di tutta la città. Si trattava, in primo luogo, di attività legate alla pastorizia che davano la possibilità di sfruttare le grandi possibilità offerte dalle vicine aree boschive. L'altipiano silano permetteva di assicurare le esigenze di pascolo del bestiame, secondo una transumanza che, su brevi distanze, permetteva di garantire l'alimentazione degli animali a quote diverse per tutto il periodo dell'anno. Oltre a servire da pascolo, la grande foresta che si estendeva fino ai limiti coltivati del territorio della città, serviva a soddisfare le esigenze di legname per tutti gli usi e a fornire una miriade di altri prodotti (cacciagione, frutti, pece, etc.). L'articolazione di queste diverse produzioni rende evidente come i Crotoniati, anche continuando a svolgere il loro mestiere di contadini, riuscissero, allo stesso tempo, a controllare (individualmente o in maniera collettiva) attività diverse. Il fatto di avere attribuito loro un quasi esclusivo impegno agricolo deve essere considerata una generalizzazione. Seppure il contadino era capace di realizzare autonomamente gli strumenti o quant'altro necessario al proprio lavoro e alla vita della propria famiglia e solo raramente si impegnava in qualche scambio che si risolveva in un semplice baratto, possiamo dire che attorno ad esso gravitavano una serie di altre figure subalterne, greche e non (piccoli artigiani, mercanti, braccianti, pastori, etc.), i cui interessi erano in parte da esso stesso condivisi. Tale situazione traspare, per esempio, dalla capacità di questi contadini urbanizzati di instaurare, fin dai primi momenti, una serie di rapporti con realtà anche molto distanti, che rendono evidente la loro volontà di salvaguardare una serie di precisi interessi economici.

 

L'enclave achea.
Oltre a considerare il territorio controllato dalla città in questo periodo, un'altra questione importante è quella di stabilire in che modo essa si rapportò con lo spazio esterno a questi confini. Non bisogna pensare che le colonie vivessero isolate nel proprio contesto ma, al contrario, le si deve immaginare capaci di affrontare, fin dai primi momenti, una serie di questioni impegnative anche in luoghi lontani. Ciò si rende evidente osservando come si sviluppò la colonizzazione in epoca arcaica, che privilegiò prima la nascita dei centri tirrenici di Cuma e Pithecussa, lo stretto e la costa orientale della Sicilia, evitando stranamente le rive dello Ionio che si trovano a portata diretta per chi proviene dalla Grecia. Tale sequenza, esattamente inversa rispetto a quanto sarebbe stato lecito attendersi, oltre a testimoniare il rispetto di direttive precise, evidenzia la volontà dei Greci di assicurarsi i punti fondamentali necessari al controllo del territorio. Tali intendimenti si rilevano anche dalle modalità con le quali si realizzò la colonizzazione dello Ionio che, da parte degli Achei, vide occupare quasi simultaneamente tutti i principali punti di passaggio terresti che conducevano al Tirreno (le cosiddette vie istmiche), in un'area abbastanza vasta che fu occupata in maniera omogenea con l'unica eccezione di Siris. Rimane evidente come gli Achei abbiano privilegiato un assetto delle loro città che, da una parte, gli permetteva, singolarmente, di occupare le aree chiave di questo ampio territorio e, dall'altra, complessivamente, di presidiarlo efficacemente nei confronti dei vicini in relazione alle opportunità di transito terrestri e marittime. Ciò dimostra ancora una volta che, al momento della fondazione, i Greci avevano un'idea ben chiara di come si sarebbero dovute inserire le loro città nel nuovo contesto. Esse sorsero in luoghi che, attraverso lo sfruttamento delle risorse agricole disponibili, permisero un pieno sviluppo delle comunità che accolsero, ottenendo, d'altra parte, il controllo delle principali vie di collegamento (cosa che presuppone anche un controllo dei traffici commerciali che vi transitavano). Ciò, ripetiamo, non avvenne per caso, ma secondo un piano preordinato mediato tra gli stati greci che, idealmente, fu realizzato nell'ambito sacro del santuario di Apollo a Delfi: la divinità che rintracceremo costantemente nei rapporti tra le colonie, sia quelli di mediazione politica riferiti alle sfere di influenza, sia quelli che sfoceranno in sanguinosi conflitti. In entrambi i casi, come vedremo, le tradizioni relative a questi avvenimenti faranno ricorso costante all'autorità del santuario di Delfi e alle prerogative di Apollo. Un così vasto controllo del territorio da parte delle piccole colonie, implicava che esse collaborassero attivamente nel mantenimento degli equilibri e giustifica gli avvenimenti successivi. Alla prima ondata coloniale, infatti, seguì molto presto un consolidamento delle posizioni conquistate che, da una parte, servì a presidiare più razionalmente il territorio e, dall'altra, a stabilire meglio i rapporti tra le diverse città. Già dai primi momenti esse si preoccuparono di garantirsi meglio le posizioni acquisite.

 

La fondazione di Caulonia.
Anche in assenza di una citazione esplicita, la fondazione di Caulonia nei pressi dell'attuale Monasterace Marina (RC), è fatta risalire ad un periodo iniziale e solo di poco successivo alla prima ondata coloniale degli Achei[31]. Seppure non unanimemente, le fonti storiche attribuiscono la sua nascita all'opera o comunque alla volontà dei Crotoniati. La fondazione di Caulonia da parte di Crotone è citata esplicitamente dallo Pseudo Scimno[32], da Solino[33] e da Stefano Bizantino[34], mentre Strabone[35] e Pausania[36] la indicano genericamente come fondazione degli Achei. Quest'ultimo, riferisce che i coloni sarebbero stati guidati da Tifone, un capo spedizione che i Crotoniati avrebbero espressamente richiesto alla città di Egion. Anche Licofrone[37] conferma che Caulonia fu fondata da Crotone, e c'informa del fatto che essa fu realizzata sul luogo di una città preesistente che i Crotoniati avevano distrutto. Di questa città Stefano Bizantino riporta il nome del capostipite eponimo: Caulon figlio dell'amazzone Cleta[38]. Seppure questa tradizione non ci consente di appurare con assoluta certezza l'origine di Caulonia, ci permette, comunque, valutazioni in merito allo sviluppo territoriale che Crotone realizzò in questo periodo, dato che, a prescindere dai suoi fondatori, la nascita di Caulonia rientra nel quadro di un preciso assetto fortemente condizionato dagli stessi Crotoniati, come dimostra il fatto che essa visse le principali vicende successive secondo una linea di condotta strettamente legata agli interessi di questi ultimi. E' presumibile, quindi, che seppure non furono direttamente i Crotoniati a fondare la città, essi ebbero certamente una parte importante nella sua nascita, come rivela Pausania quando cita il loro coinvolgimento nella richiesta del capo spedizione alla città di Egion[39]. L'avvenimento rientra nel quadro di un processo di consolidamento delle posizioni iniziali degli Achei che, accanto all'arrivo di nuove spedizioni composte da Greci di stirpe diversa, vide nascere in breve tempo, altre città che andarono ad occupare punti strategici molto importanti, in un momento nel quale le prime colonie non avevano sempre a disposizione risorse umane sufficienti per tali operazioni. Sibari, infatti, poco tempo dopo la sua fondazione, fece giungere nuovi coloni Achei che fondarono Metaponto, mentre sul Tirreno arrivò con propri coloni alla costituzione di Poseidonia[40], una vera e propria testa di ponte ai confini del territorio degli Etruschi. A questo processo poi non furono estranei gli appartenenti ad altre stirpi greche come gli Zanclei che da Calcide fecero giungere altri consanguinei per fondare Reggio, mentre altri nuovi arrivi portarono alcuni coloni ionici a fondare Siri ed altri di stirpe dorica a costituire Locri. In questo quadro trova collocazione la fondazione di Caulonia, realizzata o forse più probabilmente, solo promossa da Crotone. Considerando poi che questa fondazione avviene in un'area che valica quella di accesso alla via istmica, deve significare che anche in questa direzione i Crotoniati avevano già solidi interessi da difendere. La nascita di Caulonia rappresenta, infatti, una precisa mossa di questi ultimi tesa a controllare un vasto tratto della costiera ionica che coinvolge l'accesso alla via istmica e alle importanti risorse minerarie di quest'area[41]. L'avvenimento dimostra, dunque, la concretezza di tutta la questione relativa al controllo delle vie di comunicazione, e delle risorse alle quali davano accesso, che rappresentano un patrimonio che le città ebbero bisogno di presidiare già dai primi momenti successivi alla fondazione. Se ne deduce che già dall'inizio le città avevano una chiara organizzazione commerciale. Crotone, infatti, non fondò Caulonia per reperire altro terreno coltivabile e per dare sfogo alla domanda di terra di una parte dei suoi abitanti, ma per presidiare un'area mineraria importantissima e per difendere le principali vie di transito lungo le quali si svolgevano i propri commerci. In questo quadro si assiste poi ad una serie di avvenimenti successivi che, in corrispondenza degli sbocchi tirrenici delle più importanti vie di comunicazione, videro la nascita di una serie di città che vissero un'esistenza fortemente condizionata dagli stati greci da cui avevano preso origine. E' il caso di Lao e Scindro, per quanto riguarda Sibari, di Pixunte base commerciale di Siris nel golfo di Policastro e delle colonie tirreniche di Locri. Quest'ultima realizzò una notevole espansione sul medio Tirreno, sia mediante la fondazione di Medma e Hipponion che attraverso l'assoggettamento di Metauro. Seppure le date di fondazione di tutti questi centri sono molto controverse, e se i ritrovamenti archeologici sembrano indicare cronologie differenti ed in alcuni casi riferibili al VI secolo, è da ritenersi che si tratti comunque di aree entrate nel controllo delle metropoli di origine durante il processo di acquisizione del territorio nelle fasi immediatamente successive all'arrivo delle spedizioni coloniali. E' il caso di altre colonie che sono ricordate nel dominio dei Crotoniati come Scylletium e Terina. Seppure la costituzione di una vera e propria realtà urbana non sembra anteriore al VI secolo per Scylletium[42] e tra la fine del VI e l'inizio del V per Terina, è comunque immaginabile che le aree in cui sorsero fossero entrambe controllate da Crotone, o comunque di suo sicuro accesso, dato che diversamente non troverebbe ragione la fondazione più antica di Caulonia. Ciò comunque, deve essere inteso come la capacità della città di interagire con la realtà circostante in maniera flessibile e diversificata, stabilendo forme di controllo del territorio che tenevano conto sia della pianificazione imposta dall'oracolo di Delfi ed in questo caso delle altre colonie vicine, sia degli articolati rapporti che fu possibile instaurare con i barbari. Esprimendo una valutazione d'insieme, possiamo dire che la società crotoniate del tempo era certamente una società agricola, nel senso che era basata principalmente sugli interessi di uomini dediti al lavoro della terra, il cui possesso risultava determinante per ottenere i diritti politici. Allo stesso tempo però, essa comprendeva classi dedite al commercio ed all'artigianato che, seppure in questo primo periodo rimasero subordinate alle volontà decisionali della classe agricola, sfruttando le grandi risorse del territorio, riusciranno ad avere un tale impulso nel corso degli anni da determinare, da una parte, la floridità della città e la sua crescita demografica e, dall'altra, una serrata lotta interna per il potere.

 

Alcune questioni di toponomastica.
Soffermiamoci in ultimo sul nome della città perché, in genere, si cerca di scoprire in esso un significato collegabile con la sua storia. Senza entrare nel merito delle diverse interpretazioni che sono le più varie ed anche le più fantasiose, c'è da dire che si tratta di un nome chiaramente non greco, come rivelano i miti di fondazione, dove il toponimo viene attribuito all'eroe locale e come testimonia la lunga ed antica frequentazione del luogo da parte di civiltà pre greche. Tale frequentazione presuppone, comprensibilmente, che il luogo avesse una sua identità al pari di tutti quelli coinvolti nei viaggi che portarono a quella lunga serie di contatti sui quali abbiamo avuto tanto modo di soffermarci. Che il nome della città di Crotone abbia un'origine pre-greca e che risulti legato ai contatti stabilitisi durante le età dei metalli, non appare un'ipotesi isolata nell'ambito delle altre realtà achee. Nel caso di Metaponto, per esempio, esso è chiaramente attestato in un'epoca molto anteriore alla fondazione della città, come indicano le tavolette micenee ritrovate a Pilo. Come abbiamo già considerato, può risultare errato mettere in conseguenza la nascita di una città e l'apparire del toponimo che la rappresenta dato che, in alcuni casi, esso rende conto anche di una fase precedente a quella urbana. Tale situazione non può naturalmente essere considerata una costante, ma deve essere tenuta in adeguata considerazione, in particolare quando i luoghi interessati ricadono lungo gli itinerari più antichi coinvolti nel mito. La presenza di una toponomastica anteriore alla fondazione della città, ricollegabile alle antiche frequentazioni pre-greche, è riscontrabile anche a riguardo della via istmica tra Ionio e Tirreno. Da un capo del suo percorso, essa risultava pertinente alla città di Scylletium[43], con l'omonimo golfo sullo Ionio e, dall'altro, dopo aver raggiunto il Tirreno, conduceva al promontorio di Scilla (Scyllaeum). Anche questi toponimi, sulla cui derivazione comune si è pronunciato M. Napoli[44], non sono greci ma risultano legati ad una lingua più antica, attraverso cui fu contrassegnato il percorso più breve che, fin da epoche remotissime, metteva in collegamento le due sponde della Calabria. Che un toponimo analogo (Scilace) sia citato da Erodoto nello stesso passo dove egli si sofferma sulla lingua pre-greca dei Pelasgi (e degli antenati dei Crotoniati), sembra poi fornire una conferma veramente interessante. Non a caso la tradizione[45] attribuisce la fondazione di Scylletium a Menesteo, comandante degli Ateniesi alla guerra di Troia, con un riferimento ad una comune origine che, come abbiamo visto, voleva sia gli Achei sia gli Ateniesi appartenenti alla stirpe dei Pelasgi[46].

[1] L. Benevolo, introduzione a Storia della città, ed. Laterza 1986.
[2] M. Giangiulio, op. cit. p. 171.
[3] Val. Mass. VIII, 15.
[4] Considerando le citazioni delle fonti letterarie ed altre situazioni meglio note, gli studiosi hanno evidenziato la presenza a Crotone di diverse istituzioni pubbliche, ipotizzandone anche il ruolo ed il funzionamento. Non sembra qui il caso di approfondire la questione, sia perché si tratta d'ipotesi, sia perché, in ogni caso, la presenza dell'assemblea che riuniva la cittadinanza può essere considerata, schematicamente, l'organismo base della città greca di stampo aristocratico.
[5] Ateneo, XII 522 a-c.
[6] Livio XXIV, 3.
[7] Strab. VI, 1, 12; VI, 2, 4; Polibio X, 1, 14.
[8] G. B. Nola Molise, 1649.
[9] Livio XXIV, 3.
[10] Strab. VI, 1, 12.
[11] L'area rappresenta il principale bacino portuale durante l'epoca medievale.
[12] Livio XXIV, 3.
[13] R. Spadea, Il tesoro di Hera p. 46, ed. ET 1996.
[14] R. Spadea, op. cit. p. 43.
[15] Per quanto riguarda il cippo, viene fatto notare che si tratta di un elemento che preesisteva all'edificio stesso che individuava "..... una primitiva area sacra di grande importanza per i Crotoniati, area che fu conservata con il cippo che la delimitava in origine." R. Spadea, op. cit. p. 43.
[16] In corrispondenza degli spigoli del "basamento quadrato" sono stati rinvenuti due frammenti di colonna ed un blocchetto squadrato la cui ".... particolare disposizione sembra segnare il "limite" sacro di un precedente impianto, da rispettare e comunque sembra aver costituito il punto di riferimento per la nuova sistemazione di cui il basamento è il fulcro." R. Spadea, op. cit. p. 43.
[17] Licof. 856-865; Servio, Aen. III, 552.
[18] Livio XXIV, 3.
[19] Licof. 857 ss..
[20] Licof. 857; Livio XXIV, 3.
[21] Livio XXIV, 3.
[22] A. Pesavento, La foresta dell'Isola di Crotone, in la Provincia KR nr. 42-43/97; Uomini e boschi di Crotone e Isola, il caso Buggiafaro, in la Provincia KR nr. 6-7/98; Uomini e Boschi di Crotone e di Isola, le vicende di Forgiano Salica e Carbonara, in la Provincia KR nr. 11-12-13-14/98.
[23] Seppure la datazione archeologica di questi santuari viene riferita tra la fine del VII e l'inizio del VI (R. Spadea, 1983 p. 137-138), è da ritenersi che i luoghi siano sotto il controllo politico - religioso della divinità dall'epoca di fondazione.
[24] A proposito della presenza di un santuario greco in questa località vedi le considerazioni di A. Pesavento, Il Monastero di S. Pietro di Nimfi, in la Provincia KR n 31/97.
[25] La tradizione ricorda al proposito la presenza di alcuni centri minori nel territorio della città come Lampriade (Teocrito, Id. IV) e Platea (Giamb. 261; Ps. Scilace, 12).
[26] Asylorum è documentato come nome della città di Isola già alla fine del IX secolo d.C.. A. Pesavento, La chiesa di S. Maria dell'Isola, in la Provincia KR, nr. 2/98.
[27] Strab. VI, I, 12.
[28] B. Zaidman - S. Pantel, La religione greca, p. 187, ed. Laterza, 1992.
[29] Durante il medioevo sul promontorio esisteva l'abitato di Alichia che scomparirà alla metà del trecento. L'area circostante era ricoperta da una estesa foresta posta in demanio regio e nei pressi della via costiera, con funzioni fiscali, sorgeva il palazzo Alitio (attuale palazzo Sabatini). A. Pesavento, L'abitato di Alichia, la foresta ed il palazzo Alitio, in la Provincia KR, nr. 19-20/98.
[30] Ps. Arist., De Mir. Aus., 107.
[31] G. De Sensi Sestito pone la fondazione di Caulonia fin dagli inizi del VII secolo. G. De Sensi Sestito, La Calabria in età Arcaica e Classica, p. 238, in op. cit., Cangemi editore, 1987.
[32] Ps. Scimno, vv. 318-322.
[33] Solino, II, 10.
[34] Stefano Biz., Aulon.
[35] Strab. VI, 1, 10.
[36] Paus. VI, 3, 12.
[37] Licof. 1002-1007.
[38] Alla distruzione di un centro preesistente fa riferimento la tradizione relativa all'uccisione dell'amazzone Cleta, avvalorata dalla considerazione che la fondazione si realizzò in un'area probabilmente già abitata, come testimonia l'importanza strategica del luogo che sarà occupato dalla città e tutta la tradizione relativa alla fondazione della vicina Locri. Se quindi non è ancora possibile definire con sicurezza questa questione, possiamo fondatamente ritenere che la città venne realizzata in un'area sotto il controllo dei barbari che dovettero comunque tentare una resistenza. La tradizione relativa alla lotta degli Achei contro le Amazzoni è una chiara testimonianza letteraria, attraverso la quale si mette in luce il passaggio da una società barbara, rappresentata emblematicamente dal disordine di una città ipotetica di sole donne, ad una fase di ordine cittadino che come al solito viene imposto dai Greci attraverso l'uso della violenza.
[39] Paus. VI, 3, 12.
[40] Sulla fine del VII secolo a. C. i dati archeologici consentono di datare la fondazione di Poseidonia da parte dei Sibariti. G. De Sensi Sestito, op. cit., p. 239-240.
[41] I giacimenti di ferro dell'odierna area di Stilo sono stati sfruttati fino al tempo dell'unità di Italia.
[42] G. De Sensi Sestito, op. cit., p. 238.
[43] In epoca romana Scylacium ed anche Scolacium.
[44] M. Napoli, op. cit. p. 216.
[45] Strab. VI, 1, 10. Sulla fondazione ateniese di Scylletium anche Plinio, N. Hist. II, 95; Solino, II, 10.
[46] La presenza ricorrente di uccelli interpretabili come gru o cicogne accanto al tripode sulle monete di Crotone fin dall'epoca arcaica, potrebbe essere considerata una testimonianza delle mitiche origini dei coloni Achei che fondarono la città. Secondo Strabone (V, 2, 4), nel nome di questi uccelli (in greco pelargoi significa cicogne) si celerebbe quello degli stessi Pelasgi, mentre secondo Plinio essi erano gli uccelli sacri ai Tessali.

 

capitolo quarto

Un esempio di retorica.
Il periodo che all'incirca comprende tutta la seconda metà del VI secolo si contraddistingue, rispetto al precedente, per un'interruzione della pace sostanziale che aveva caratterizzato i rapporti tra le città. Attorno alla metà di questo secolo si registrano, infatti, una serie di conflitti che trovano protagonisti gli Achei e che coinvolgono le principali colonie. Questa nuova fase vede in particolare evidenza Crotone, che è citata in tutti i principali avvenimenti del periodo. Dal racconto di Pompeo Trogo (la cui fonte probabile è Timeo) riassunto da Giustino[1] sappiamo che Sibari, Crotone e Metaponto alleate tra loro contro Siris, sconfissero e distrussero quest'ultima. Questo fatto, utilizzando un termine di triste attualità, ci è descritto come un episodio di pulizia etnica, in quanto le tre città achee avrebbero inteso scacciare i Siriti perché questi ultimi erano di razza ionica. Se ciò rappresenta la ragione ufficiale del conflitto, tutto lascia pensare che, come avviene ai giorni nostri, le motivazioni etniche servano a coprire motivazioni più sostanziali. E che i Greci fossero sufficientemente smaliziati in questo senso, ci è sottolineato dall'autore aristotelico della Retorica di Alessandro:
"Sia che, dopo essere stati vittime di ingiustizie nel passato, occorra ormai, con il favore delle circostanze, punire coloro che hanno commesso tali ingiustizie, oppure che, essendo attualmente vittime di un'ingiustizia, occorra combattere per se stessi o per dei benefattori o recare soccorso ad alleati vittime di un ingiustizia, sia nell'interesse della città o per la sua gloria, per la sua potenza o per qualche altra ragione del genere, quando incitiamo alla guerra bisogna mettere in rilievo il più gran numero possibile di tali pretesti". Lasciamo quindi da parte le motivazioni ufficiali che ci sono state tramandate e vediamo quali possono essere le vere ragioni che portarono a questo conflitto. Innanzi tutto, diciamo che sono state sollevate diverse perplessità a riguardo dell'attendibilità di Giustino. Dato che ci troviamo di fronte ad un episodio di conquista che, in definitiva, si considera mirato all'appropriazione del territorio di Siris, alcuni sostengono che la partecipazione di Crotone sia poco verosimile, in quanto solo Sibari e Metaponto, che confinavano con il territorio sirita, si sarebbero potute avvantaggiare di un'eventuale vittoria. Questo ragionamento contiene invece alcune premesse errate. Esso si basa sul presupposto che gli Achei distrussero Siri e che occuparono fisicamente il suo territorio. Abbiamo invece ragione di credere che entrambe queste situazioni non si siano realizzate, e che la partecipazione di Crotone a questa guerra non solo sia veritiera ma anche abbastanza comprensibile.


La guerra greca.
La guerra è un aspetto molto importante per comprendere gli avvenimenti che videro protagonisti i Greci, sia perché i fatti bellici hanno il potere di mettere a nudo gli avvenimenti, sia perché l'avvento dell'organizzazione urbana determinò l'assunzione delle principali funzioni militari da parte del cittadino, funzioni che sono strettamente legate a questo status e che rappresentano la sua principale qualificazione. In relazione alla organizzazione sociale della città, ed in via del tutto generica, possiamo dire che i conflitti tra i Greci dell'epoca arcaica, nascevano naturalmente e per i motivi più vari, dalla precarietà degli equilibri che esistevano tra le piccole comunità cittadine e dalla rigidità della loro organizzazione sociale. In questo caso, uno scontro poteva rendersi necessario per il deterioramento di un rapporto di vicinato, ma anche in occasione dell'apertura di un fronte interno, visto che la massa dei subalterni era sempre pronta nel cercare di ribaltare le posizioni di potere, quando si poteva intravedere una debolezza che consentisse di passare all'azione. Certo, come a volte avveniva, la guerra poteva essere evitata facendo concessioni, ma i privilegi acquisisti dovevano spesso essere mantenuti con le armi, quando bisognava cercare di imporre la propria volontà o quando bisognava difendersi da quest'imposizione. Ciò non significa però che i Greci s'impegnassero in lunghi periodi di combattimento, in quanto per loro la guerra era molto più semplicemente rappresentata da una sola battaglia, un unico duello tra gli eserciti, che si risolveva in un solo giorno, anzi in poche ore e che decretava molto rapidamente sconfitti e vincitori. Allo scopo non esistevano militari di professione. Quando si decideva di combattere veniva costituito l'esercito, del quale facevano parte tutti i cittadini che vi militavano come opliti fino a tarda età. Armati a proprie spese con un grande scudo rotondo, la lancia, la corazza e l'elmo di bronzo, questi fanti componevano la falange, la formazione tattica di combattimento che prevedeva uno schieramento in file contigue, dove ognuno aveva il proprio posto vicino ai familiari. La falange era il vero e proprio esercito, completato da gruppi di fanteria leggera ed a volte da un piccolo contingente di cavalleria. Essendo un esercito composto esclusivamente da cittadini, le altre categorie sociali che non godevano di questo diritto, erano escluse dall'organizzazione oplitica. Come nel resto della loro vita sociale, esse svolgevano un ruolo marginale, prestando il loro servizio alla causa della città come lanciatori di giavellotto, arcieri o con altre armi leggere. Vediamo ora come si svolgeva questa guerra. Presa la decisione nell'assemblea, la città nominava uno o più comandanti, che guidavano l'esercito ai confini della città nemica, assumendo la responsabilità delle operazioni. I Greci non ritenevano che ci si dovesse barricare nella città ed attendere un assedio, ma consideravano prioritario combattere il nemico a viso aperto in un unico scontro risolutivo. Come in un duello, gli eserciti si incontravano presso il confine, in genere segnato da un fiume, dove la pianura permetteva agli opliti di schierarsi. Qui compiuti i sacrifici e ricevuti gli auspici favorevoli, gli opliti componevano la falange di fronte a quella avversaria. In questa formazione essi si disponevano uno accanto all'altro su di un fronte variabile in funzione del loro numero, e si ammassavano in file nelle quali ognuno stava gomito a gomito con il vicino in maniera tale da creare una vera e propria barriera di scudi irta di lance. Al segnale del comandante, la falange, di solito posta a poche centinaia di metri dal nemico, si metteva in movimento al passo, per poi slanciarsi di corsa nell'ultimo tratto. Ai suoi lati i soldati armati alla leggera, con giavellotti e frecce, bersagliavano i nemici, per ritirarsi una volta che le due falangi fossero venute a contatto. A questo punto ogni schieramento cercava di crearsi un varco in quello avversario e, mentre le prime file cercavano con le lance di uccidere o di far arretrare i nemici, le file successive spingevano i compagni con lo scopo di creare un cedimento nella formazione nemica. Era un combattimento breve ma violentissimo nel quale perdere la coesione portava rapidamente ed inevitabilmente ad essere travolti dalla massa nemica. Succedeva quindi che una delle due falangi, sotto i colpi e la spinta nemica si disunisse, a questo punto agli opliti non restava altro che cercare scampo nella fuga. L'armamento pesante non consentiva loro in vero grandi possibilità, ed alcuni cadevano incalzati dalla cavalleria e dalle truppe leggere che, a questo punto rientravano in gioco assalendo il nemico in fuga, in virtù della loro maggiore capacità di movimento. Molti altri in ogni caso si salvavano, anche perché dopo un rapido inseguimento i vincitori desistevano, in quanto il loro obiettivo non era quello di annientare il nemico ma solo di sconfiggerlo in maniera da ricondurlo alla propria volontà. Queste guerre si concludevano quindi con un numero limitato di morti, anche per l'esiguo numero dei combattenti. Sul luogo dello scontro, i vincitori innalzavano un trofeo fatto con le armi prese agli sconfitti, e ritornavano alla loro città dove un'altra parte di questo bottino era consacrato nei santuari. In questo modo di condurre la guerra, non vi era spazio per azioni dirette contro la popolazione civile, in primo luogo perché, come abbiamo evidenziato, almeno tra gli uomini non esisteva una popolazione civile dato che tutti gli adulti per l'occasione erano inquadrati nell'esercito, secondo perché non esisteva da parte del vincitore nessun interesse a trucidare le famiglie dei vinti e tanto meno a distruggerne le case. La vittoria, infatti, era finalizzata allo sfruttamento delle risorse dei vinti che, data l'esiguità delle popolazioni coinvolte, non poteva certo avvenire attraverso un massacro indiscriminato. Esisteva quindi un modo greco di fare la guerra, l'unico che i Greci ritenevano fosse onorevole e che consisteva nell'affrontare il nemico in uno scontro decisivo faccia a faccia, e che prevedeva che il cittadino libero dovesse difendere gli interessi della città e quindi i suoi, in un duello risolutivo con il nemico. Questa scelta non nasceva dalla volontà di rifarsi ad una qualche regola cavalleresca, ma era improntata ad una risoluzione efficace e sbrigativa della questione. Tanto efficace, da conferire ai Greci una tale superiorità militare che gli garantirà per lungo tempo un netto predominio nei confronti dei principali vicini. Tutto ciò caratterizzerà i Greci fino al periodo della guerra del Peloponneso, successivamente, agli eserciti cittadini subentreranno, sempre più massicciamente, contingenti di mercenari pagati dalle città. Con l'avvento dei soldati di mestiere, le guerre, seppure continuino a mantenere il modello tattico della battaglia oplitica, diverranno vere e proprie campagne, lunghe e cruente anche per i civili e si affermeranno altri modi di combattere che porteranno le città a dotarsi di flotte e cinte murarie.

 

La distruzione di Siri.
Da quanto abbiamo esposto, si comprende che per distruzione di Siri (ma anche in altri casi come vedremo in seguito), non si deve intendere che gli Achei l'abbiano rasa al suolo sterminandone la popolazione, in quanto ciò era estraneo ai loro obiettivi. La distruzione di Siri citata dalla tradizione, non riguardò dunque le case dei Siriti, essa fu invece politica e per quanto abbiamo detto a proposito dello spirito cittadino che animava i Greci, allo stesso modo tragica come una devastazione, in quanto cancellò la prerogativa principale che permetteva la vita di una città greca: quella di potersi determinare liberamente ed autonomamente. La tragicità con la quale quest'episodio è riportato dalla tradizione non è dovuto comunque solo a questo aspetto. L'aggressione a Siri fu sicuramente un episodio molto difficile da giustificare per la rigida morale greca dato che quest'evento venne ad interrompere la pace sostanziale che aveva accompagnato la vita delle colonie fin dalla loro fondazione, nonché il reciproco rispetto delle aree di influenza che attraverso l'oracolo di Delfi, erano state sancite dalla volontà di Apollo. Ne sono testimonianza gli episodi che a riguardo parlano dei fanciulli siriti trucidati dopo essersi rifugiati attorno all'altare di Atena Iliaca[2], delle sedizioni interne e delle pestilenze che, come una maledizione divina, avrebbero colpito gli Achei[3] nonché dei loro successivi atti di espiazione presso il santuario di Delfi che, alludendo ad una violazione della volontà di Apollo, sottolineano tutti la riprovazione nei riguardi di un atto di aggressione compiuto in maniera deliberata anche se motivato da solidi interessi. I Crotoniati, infatti, recatisi a Delfi si sarebbero infine liberati delle pestilenze erigendo, su ordine dell'oracolo, magnifiche statue alla dea e ai fanciulli trucidati. Una distruzione come quella ipotizzata, poi, avrebbe costituito un non senso per i vincitori. Il territorio conquistato, infatti, non fu occupato totalmente dagli Achei, per il fatto molto semplice che ciò non sarebbe potuto avvenire nella pratica né sarebbe stato utile farlo. Le considerazioni che ci portano a queste affermazioni sono in relazione a quanto abbiamo esposto sulla natura stessa della città e dei suoi cittadini. Nella nostra analisi abbiamo visto che le dimensioni territoriali di una città non sono un fatto casuale, ma rappresentano ciò che costituisce la proprietà dei suoi cittadini ed il titolo che permette loro di possedere i pieni diritti. Ne consegue che i vincitori non avrebbero potuto acquisire la terra conquistata mantenendo allo stesso tempo il possesso delle loro proprietà, dato che ciò avrebbe determinato una specie di doppia cittadinanza senza senso. I vincitori poi, essendo al pari dei vinti, contadini, non potevano continuare a lavorare i loro campi e allo stesso tempo prendersi cura di quelli distanti anche poche decine di chilometri nel territorio conquistato, dato che i cittadini non erano possidenti terrieri che si occupassero solo della gestione dell'attività agricola, ma erano quelli che la realizzavano materialmente attraverso il lavoro nei campi. Possiamo dire, inoltre, che questa terra non poteva essere data neanche troppo facilmente a chi non ce l'aveva, dato che ciò avrebbe comportato, automaticamente, la concessione a questi ultimi di un titolo di legittimità civile e politica. Possiamo quindi immaginare che sebbene una parte del territorio degli sconfitti venisse acquisito dai vincitori che lo assegnavano a soggetti che ne erano comunque privi, larga parte continuava a rimanere nelle disponibilità dei primi. Ciò consentiva di avere a disposizione una popolazione asservita se non come condizione sociale almeno dal punto di vista politico ed inoltre di dare sfogo ad una sicura domanda interna da parte di quanti non avevano altre possibilità d'accesso alla terra se non quella derivante da una concessione da parte dei concittadini o da una nuova conquista. Questi contadini che rischiando la propria vita avevano combattuto per realizzare un obbiettivo politico ed economico non si prefiggevano quindi di fare i pendolari né di spartire i propri diritti ed i propri privilegi. Essi miravano ad acquisire altri vantaggi che non erano solo in relazione al reperimento di altri terreni da lavorare ma principalmente ad altri terreni da sfruttare. Gli Achei quindi non trucidarono i Siriti che servivano a presidiare il territorio conquistato ed a farlo fruttare a tutto loro vantaggio, ma imposero ai vinti una serie di condizioni, tra le quali possiamo immaginare anche quella di accettare nella cittadinanza una quota di nuovi soggetti comunque legati alle loro famiglie o a quelle degli alleati. Oltre ad imporre tributi, essi si impadronirono dei loro traffici commerciali e del controllo delle vie di comunicazione, della gestione delle loro risorse ed, in definitiva, del loro ruolo. Alla luce dello spirito cittadino che animava i Greci, come si può considerare se non distrutta, una città che aveva perso qualunque capacità di auto determinarsi, che aveva dovuto accogliere degli estranei e che aveva dovuto cedere il proprio ruolo? Un altro aspetto che bisogna considerare per comprendere le ragioni di quest'avvenimento è rappresentato dal fatto che esso vede gli Achei riuniti perseguire quello che ci viene descritto come un obiettivo comune. Gli Achei, con questa guerra, avrebbero inteso eliminare da un'area sostanzialmente omogenea (che implicitamente dunque potevano rivendicare), una presenza etnica diversa. Tale descrizione, che sottolinea l'unità di intenti che caratterizza l'atteggiamento degli Achei in questa fase, è da mettere in relazione a quanto abbiamo detto a proposito del controllo dello spazio in cui erano sorte le loro città e implica ed avvalora le considerazioni che abbiamo espresso a riguardo delle forme di collaborazione che caratterizzarono l'arrivo delle spedizioni e tutta la fase precedente all'accendersi dei conflitti. Ritornando al momento in cui si inquadra l'avvenimento, possiamo dire in definitiva che l'episodio della distruzione di Siri è riconducibile ad una fase nella quale le colonie sorte sullo Ionio, (ma che avevano già solidi interessi sul Tirreno) entrano in disputa come reazione e contro reazione ai rispettivi tentativi di variare i limiti delle loro aree di influenza sancite dal volere di Apollo al momento della fondazione, di cui la distruzione di Siri non è che il primo di una lunga serie di episodi che caratterizzeranno la storia greca dell'Italia. Non appare poi un caso che esso abbia coinvolto da una parte Siri e dall'altra le città achee riunite, la prima, infatti, sorgeva all'interno di quella che abbiamo definito un'enclave di questi ultimi e si presentava certamente come un punto di discontinuità e di instabilità di questo ampio territorio.

 

La battaglia del fiume Sagra.
Proprio nella scia di questa situazione di conflitto, le fonti letterarie[4] ci segnalano in questo periodo un altro episodio che questa volta vede protagoniste Crotone e Locri. Non conosciamo la data precisa dei fatti, ma considerando che secondo la ricostruzione di Giustino[5], questi furono motivati dalla volontà dei Crotoniati di punire i Locresi per l'aiuto fornito a Siri in precedenza, si colloca l'episodio successivamente e si ipotizza che esso possa risalire ad un periodo attorno al 530 a. C.[6] La tradizione descrive la vigilia di questo avvenimento sottolineando la grande apprensione dei Locresi verso la minaccia incombente. Essi, infatti, si sarebbero recati a Sparta in cerca di sostegno ed a Delfi per conoscere la loro sorte dalla bocca dell'oracolo di Apollo, facendo poi ritorno in patria con le statue dei Dioscuri (i gemelli Castore e Polluce) date loro dagli Spartani. Quindi, fortemente indecisi se affrontare i Crotoniati in campo aperto (in alternativa ad una resistenza ad oltranza tra le mura), arrivarono ad una decisione solo dopo l'intervento di Persefone che come divinità poliade della città, apparve loro esortandoli ad andare incontro al nemico ed assicurando la propria protezione[7]. Tale favore sovrannaturale ha in ogni modo un preciso riferimento anche a riguardo degli atti che avrebbero visto protagoniste le due città nei confronti dell'oracolo a Delfi. Qui i Crotoniati, alla vigilia della battaglia, si sarebbero recati per promettere ad Apollo la decima dell'eventuale vittoria, ma sarebbero stati superati nell'offerta dai Locresi che promisero al dio la nona parte[8]. La battaglia avvenne sul fiume Sagra dove, secondo Strabone, i Reggini furono alleati dei Locresi che, schierando "solo" 15.000 uomini, ebbero ragione di 130.000 Crotoniati[9]. A proposito della consistenza dei due eserciti, Giustino afferma che i Crotoniati erano 120.000 e 10.000 i Locresi, confermando sostanzialmente la versione fornita da Strabone, ma senza citare l'intervento di Reggio[10]. In quest'occasione sarebbero avvenuti fatti straordinari come l'apparizione di un'aquila (l'uccello sacro a Zeus) che fu vista volteggiare sul campo di battaglia e come l'intervento di Aiace e dei Dioscuri, che avrebbero combattuto a fianco dei Locresi determinando la loro vittoria. Con un riferimento che, analogamente a quello che coinvolge Delfi, ha l'intento di fornire il definitivo riequilibrio della situazione di crisi, è tramandato che la notizia sarebbe giunta ai Greci riuniti ad Olimpia lo stesso giorno della battaglia[11] divenendo addirittura proverbiale ("vero come la Sagra") e rimanendo ad indicare i fatti incredibili ma veri. Fin qui la tradizione che, seppure ci propone una ricostruzione dei fatti colorita da una serie di episodi fantasiosi, ci permette di appurare una serie di questioni. Partiamo dalle motivazioni del conflitto. Esso ci è presentato come un atto di aggressione da parte dei Crotoniati che sembra essere in linea con gli avvenimenti precedenti, visto l'interesse di questi ultimi verso l'area di confine locrese, che risaliva al tempo della fondazione di Caulonia. Da parte di Crotone, abbiamo valutato questi interessi nella concomitante esigenza di difendersi da una possibile minaccia verso la via istmica e verso i giacimenti minerari presenti nell'area di Stilo. Se nei primi periodi della sua esistenza gli equilibri erano stati mantenuti, verso la metà del VI secolo la situazione era notevolmente cambiata. Entro gli inizi del VI secolo[12], Locri aveva fondato Medma e Hipponion sul versante tirrenico ed era riuscita a garantirsi il controllo di Metauro, una colonia di origine zanclea situata in prossimità del fiume omonimo, che in precedenza era gravitata nell'orbita delle città dello stretto. Non è chiaro a questo punto cosa abbia potuto spingere Reggio ad affiancare Locri, visto il conflitto che le aveva viste nel recente passato disputarsi il controllo di Metauro, un centro che sarà motivo di attrito per queste due città nel basso Tirreno anche nel futuro. D'altra parte non s'intuisce quale minaccia avrebbero potuto costituire per Reggio gli interessi di Crotone che viceversa erano rivolti contro quelli di una sua recente rivale nello stesso scenario. Personalmente non credo dunque in un aiuto di Reggio a Locri in quest'occasione anche perché il fatto viene taciuto da Giustino e riferito solo da Strabone la cui fonte, per l'occasione, è Antioco di Siracusa, un personaggio che come vedremo, aveva solidi interessi di parte per avvalorare una tradizione di questo tipo. Se oscura appare la partecipazione di Reggio, chiari sono invece gli interessi di Crotone. Essi debbono essere ricercati nella volontà di contrastare l'espansione di Locri sul Tirreno che con la fondazione di Hipponion si era portata pericolosamente a ridosso della via istmica, coinvolgendo di conseguenza anche la pertinenza ionica di quest'ultima e creando una situazione che, da parte di Crotone, non poteva essere vista che come una minaccia. In questo senso trova ragione la ricostruzione operata dalla tradizione che inserisce l'avvenimento nel clima d'instabilità avviato con la caduta di Siri, l'aiuto che quest'ultima avrebbe ricevuto da Locri e la serie di iniziative di Crotone che aveva salvaguardato i propri interessi promuovendo la fondazione di Caulonia. Come abbiamo visto, i momenti successivi alla dichiarazione di guerra e precedenti alla battaglia, sono descritti attraverso una ricca serie di episodi che da un punto di vista ideologico si ricollegano a quelli che si sarebbero verificati durante lo scontro. Gli interventi di Aiace, di Persefone e di Zeus fanno riferimento alle tradizioni sulle origini di Locri ed ai suoi principali culti civici, mentre la tradizione che chiama in causa Sparta e i Dioscuri evidenzia un riferimento esplicito alle origini doriche della città[13]. Veniamo alla battaglia. Considerando l'assetto del periodo, possiamo supporre che il luogo dove essa si svolse possa essere identificato nel tratto compreso tra quelli che si ritengono i limiti territoriali di Caulonia e di Locri, forse con il corso del torrente Allaro[14], nel quale si dovrebbe quindi riconoscere il fiume Sagra. Per quanto abbiamo visto sul modo greco di affrontare una guerra, possiamo dire che le dimensioni degli eserciti sono sicuramente sproporzionate rispetto ad ogni plausibile realtà. Le citazioni che vi fanno riferimento trovano invece la loro ragione nel contesto epico dell'evento che avrebbe visto i Locresi, inferiori per numero, difendere con successo la propria patria assalita da un nemico preponderante. Essa si collega poi alla classica morale della vittoria che arride a chi si batte per una giusta causa ed in questo caso, sembrerebbe confermare che il conflitto sarebbe scaturito a seguito di un atto d'aggressione compiuto dai Crotoniati. Assolutamente senza fondamento sono quindi i tentativi da parte di alcuni di trovare una ragione al numero dei combattenti ed all'esito inverosimile della battaglia che sarebbe stato determinato da un agguato, o dall'impossibilità dell'abnorme esercito crotoniate di manovrare in spazi angusti dove sarebbe stato attirato dai Locresi. Gli argomenti che abbiamo esposto permettono di valutare l'infondatezza di questioni di questo tipo. Diversamente, in base a quanto invece conosciamo della battaglia oplitica, possiamo immaginare che la sconfitta dei Crotoniati sia avvenuta né più e né meno per le stesse cause che determinavano a quel tempo tutte le sconfitte. Il cedimento della falange, come conseguenza di una perdita di coesione creata dal nemico o determinata dalla propria incapacità di mantenere lo schieramento sotto la pressione avversaria. Cosa che ci è tramandata anche in questo caso, quando si racconta che il comandante dei Crotoniati Leonimo, pensando di conquistare la vittoria, abbia lanciato i suoi in un varco che aveva visto tra le fila dei Locresi. Il suo tentativo invece sarebbe fallito miseramente perché quel varco era nella realtà il posto di Aiace che, essendo uno spirito, non poteva essere veduto[15].

 

Le conseguenze della disfatta.
Gli studiosi, in genere, attribuiscono alla sconfitta della Sagra conseguenze relativamente negative per Crotone, sostenendo che essa non determinò ripercussioni sostanziali. Le motivazioni che abbiamo posto come base del conflitto e i primi avvenimenti successivi, ci dimostrano invece che le ripercussioni furono serie, dato che la posizione di Locri in direzione dello sbocco tirrenico di Hipponion si era notevolmente rafforzata e costituiva sempre più una minaccia futura per i confinanti interessi di Crotone. La stessa situazione interna era divenuta delicatissima. Essa è evidenziata in due diversi passi di Strabone secondo il quale la sconfitta, a causa delle numerose perdite, avrebbe determinato un generale indebolimento della città che l'avrebbe avviata verso un fatale declino[16], mentre Giustino riferisce che la sconfitta determinò l'infiacchimento dei Crotoniati e il loro disinteresse per le pratiche militari[17]. Seppure queste citazioni non possano essere intese alla lettera, ci forniscono la rappresentazione di una situazione di crisi che si aggancia a tutta la tradizione che accompagna l'arrivo a Crotone di Pitagora. Essa rimarca questo momento di involuzione, che poi sarebbe stato sanato da Pitagora attraverso la diffusione della sua dottrina nella città. Tale avvenimento, in considerazione dell'importanza riconosciuta al filosofo, è sicuramente uno degli episodi più noti della storia di Crotone, che ci permette, innanzi tutto, di valutare alcuni elementi che è possibile mettere in relazione ad un cambiamento degli equilibri interni nella città. Gli aspetti fondamentali della dottrina di Pitagora e la tradizione che lo accompagna, ci consentono di mettere in relazione diretta il suo arrivo a Crotone con la situazione della città all'indomani della sconfitta subita. Proprio la sconfitta era diventato il pretesto per provocare le prime rivendicazioni più consistenti di quei ceti esclusi dalla vita politica della città.

 

Una naturale lotta per il potere.
Fin dalle origini, Crotone era organizzata sulla base di un'aristocrazia che esercitava il proprio dominio su di un vasto territorio e su una popolazione abbastanza numerosa che veniva mantenuta in una condizione di completa sudditanza. Relativamente al periodo, tale situazione si era mantenuta sostanzialmente inalterata, ma sebbene tale aristocrazia fosse rimasta al potere, la popolazione ad essa sottoposta si era notevolmente evoluta, sia nel numero che nella sua composizione sociale. Alle famiglie aristocratiche discendenti dai coloni, si erano andati nel tempo aggregando altri gruppi sociali, costituiti sia da individui completamente subalterni che avevano goduto dello sviluppo del primo secolo e mezzo di vita della città, sia da individui di condizione libera, la cui libertà era comunque limitata dalle prerogative vantate dagli aristocratici. Tale situazione, ricostruibile attraverso una serie di avvenimenti che prendono l'avvio dall'insuccesso maturato nella contesa con Locri, determinerà un progressivo ribaltamento delle antiche posizioni di potere. Prima di analizzare tali cambiamenti in seno all'organizzazione dei Crotoniati, serve comunque avere un'idea più chiara sulle forme di governo che furono adottate dai Greci in alternativa ed opposizione a quelle aristocratiche.

 

Democrazia e Tirannide.
Si tratta fondamentalmente di sistemi che prevedevano un'estensione del diritto di cittadinanza ad alcune categorie di esclusi. Tale situazione poteva determinare la formazione di quello che si definisce un governo democratico, nel quale rientrano anche soggetti di condizione libera dediti al commercio ed all'artigianato che affiancavano i classici contadini proprietari della terra. Una situazione maggiormente estremizzata è rappresentata dalle Tirannidi, nelle quali il potere era assunto da un unico individuo (il Tiranno). Questa situazione determinava un allargamento ulteriore del gruppo sociale di pieno diritto perché, per assumere il potere e mantenerlo, il tiranno aveva bisogno di un largo consenso, che si realizzava attraverso la concessione di privilegi alla fazione che lo aveva sostenuto nella sua ascesa, e della cittadinanza a larghi strati della popolazione, anche di condizione servile. Da quello che stiamo evidenziando, si comprende come sia difficoltoso ed improponibile creare dei paragoni con la realtà dei nostri giorni. Senza esprimere un giudizio che non avrebbe senso proiettato in una società a circa tremila anni di distanza, possiamo dire che le forme di governo che abbiamo descritto hanno dei connotati sostanzialmente diversi da quelli che potremmo loro attribuire a prima vista. Ci accorgiamo, infatti, che la democrazia greca aveva poco a che fare con una qualunque forma di democrazia moderna, dato che, nonostante i diritti estesi a fasce più ampie di popolazione, rimanevano esclusi larghi settori della società. La partecipazione di tutti i cittadini nell'assemblea, determinava poi un coinvolgimento diretto che non esiste in una democrazia moderna, nella quale le decisioni sono prese da una classe politico-dirigenziale che si avvale di un consenso concesso su delega dai cittadini che spesso restano completamente inconsapevoli delle decisioni assunte.

 

La setta Pitagorica.
Le trasformazioni che si verificarono a Crotone durante la seconda metà del VI secolo, possono essere apprezzate attraverso una serie di avvenimenti che la tradizione lega all'arrivo di Pitagora e alla fondazione nella città della sua setta. Nel mondo greco le sette erano organizzazioni sociali e religiose che a differenza dei culti ufficiali che riunivano collettivamente la cittadinanza, permettevano di soddisfare una serie di bisogni individuali e relativi a gruppi sociali emarginati dall'organizzazione cittadina, come gli individui di condizione servile e le donne. Le sette erano quindi associazioni perfettamente legali e riconosciute dalla città, nelle quali ognuno continuava a ricoprire il proprio posto legato alla propria condizione sociale. Non si trattava dunque di strutture alternative alla città, ma possiamo dire che le sette erano complementari ad essa, andando ad interessare ambiti dove, la rigida organizzazione urbana, limitava il suo organigramma ed il suo controllo. Rispetto a questa descrizione generale, i Pitagorici si connotarono per una loro originale impostazione che, seppure sotto forma di un'ideologia religiosa, comportava un netto rifiuto dell'ordine politico della città. La setta pitagorica si riproponeva di dare alla città un ordine diverso da quello della polis, basato sulla guida di un uomo illuminato che avrebbe utilizzato la sua sapienza per il bene della comunità. I Pitagorici, attraverso il perseguimento del proprio ideale, si riproponevano quindi di sovvertire l'ordine politico della città che si basava invece su un criterio d'eguaglianza tra i soggetti di diritto. Quando parliamo dei Pitagorici e del loro obiettivo di sovvertire lo stato, non dobbiamo pensare però ad un gruppo illegale tipo Brigate Rosse o Falange Armata, perché (l'abbiamo detto) le sette erano perfettamente riconosciute. Proprio questo riconoscimento permetteva loro di condurre un'azione ideologica che, comunque, veniva celata nel segreto delle pratiche che si svolgevano all'interno della loro comunità. Ciò le poneva, inevitabilmente, in una condizione di minoranza ai margini della città che, nel caso dei Pitagorici, in considerazione del loro obiettivo, si manifestava attraverso il rifiuto di tutti simbolismi legati alla sua struttura. E' nota, infatti, la pratica pitagorica di non cibarsi della carne. Ciò non avveniva perché il fatto era legato ad una particolare dieta alimentare, ma perché il consumo della carne avveniva all'interno della pratica rituale del sacrificio, durante il quale tutta la città ribadiva la sua organizzazione con le sue gerarchie. Il tipo di vita in comune auspicato dai Pitagorici è un altro aspetto di questa condotta ideologica, dato che essi auspicavano che ogni membro della setta mettesse in comune i suoi beni con quelli degli altri confratelli. Ciò rappresenta l'esatto contrario di ciò che invece costituiva l'ordine sociale della città, dove il diritto di cittadinanza era legato alla proprietà terriera e ai beni che su di essa erano stati realizzati.


Una valutazione politica e sociale del Pitagorismo.
Sappiamo quindi come valutare la presenza dei Pitagorici a Crotone, come in altre città nelle quali la loro esperienza politico-religiosa si realizzò. Essi erano un gruppo solidale che auspicava un diverso ordine della città e che viveva una vita sociale in attesa di poter realizzare quest'obiettivo. Per arrivare a ciò, la setta si impegnava in una attività di proselitismo, attirando soggetti a quest'idea, con la promessa di una emancipazione sociale e di una salvezza ultraterrena. Quest'ultimo aspetto assume una sua valenza specifica ed un carattere d'estrema novità nel panorama religioso fin qui descritto. I Greci, infatti, non credevano che dopo la morte esistesse una sorta di paradiso o una vita ultra terrena, né che gli uomini avessero un'anima, ma che i trapassati si riunissero in un regno oscuro popolato dalle ombre dei morti (l'Ade) dal quale, comunque, non esisteva nessuna salvezza. La filosofia pitagorica introdusse in questa concezione dell'aldilà una novità molto importante, basata sul concetto che ogni essere vivente è dotato di un demone (qualcosa di vicino al nostro concetto di anima) che alla morte abbandona le sue spoglie e migra in un altro, attraverso un ciclo di reincarnazioni successive che si perpetuano in funzione dei meriti acquisiti durante la vita terrena. In questo caso, un essere meritevole si eleva migrando in altri di livello superiore, per esempio da un insetto ad un cavallo o all'uomo, mentre il ciclo si compie all'inverso per chi non acquisisce tali meriti, che la tradizione individua in una condotta di vita consona ad una serie molto articolata di precetti e che noi conosciamo solo attraverso una letteratura d'epoca romana. Il livello più alto è in ogni modo, quello del filosofo che nell'ideale pitagorico rappresenta la figura che avrebbe dovuto assumere la guida della società. Questa figura era naturalmente incarnata dallo stesso Pitagora che, secondo la tradizione si sarebbe presentato ai Crotoniati assumendo l'autorità e le prerogative di Apollo Pizio[18]. Abbiamo già preso sufficiente confidenza sulle rappresentazioni religiose, per valutare alcuni significati relativi alla presenza di Apollo nella filosofia pitagorica. Tale dottrina si pone, infatti, come una rivelazione che, profusa dallo stesso Pitagora, si manifesta agli uomini per permettere loro la comprensione delle cose. Si tratta di un ambito classico che la cultura greca attribuisce ad Apollo, divinità che in questo caso è presentata come l'ispirazione divina di Pitagora. Un'ispirazione analoga a quella che veniva manifestata dall'oracolo delfico, che fa di Pitagora tramite privilegiato del dio presso gli uomini. La valenza di tale rappresentazione religiosa, risiede nelle implicazioni che richiamano all'ordine originario stabilito dall'oracolo delfico, nel ruolo che la tradizione attribuisce al filosofo e nella descrizione degli avvenimenti che lo videro protagonista al suo arrivo nella città. Tali avvenimenti lo identificano nella funzione di censore delle abitudini dissolute, di moderatore ma anche di strenuo difensore degli equilibri interni della polis. Tale azione calmierante ci permette di legarlo chiaramente al momento che la città stava vivendo e di riconoscerlo apertamente impegnato al fianco dell'aristocrazia. Quest'affermazione potrebbe apparentemente risultare in contrasto con quanto è stato detto sulla struttura e sugli obiettivi che la setta si riproponeva di realizzare e che risultano evidentemente antagonistici verso l'organizzazione della polis. Le cose appaiono invece nella loro dimensione se si considera il contesto nel quale fu realizzata l'accoglienza di Pitagora, un contesto di crisi e di involuzione della città che, come abbiamo visto, la tradizione faceva risalire, genericamente, alle conseguenze della sconfitta militare della Sagra. Un effettivo chiarimento sulla natura di questa situazione interna, ci viene comunque fornito dal resoconto degli avvenimenti che videro protagonista Pitagora al suo arrivo nella città, ed in particolare da ciò che la tradizione ha tramandato attraverso una serie di discorsi che il filosofo tenne ai Crotoniati. Questa predicazione di Pitagora, che costituisce il preludio alla sua accoglienza nella città, rappresenta un passaggio fondamentale per una comprensione del Pitagorismo e per una sua effettiva valutazione storica. In questi discorsi risalta l'impegno a 360 gradi di Pitagora, nel ricostituire a Crotone quella concordia che, secondo la tradizione, sembra che l'avesse fatalmente abbandonata. Il recupero della concordia rappresenta, infatti, il tema ricorrente in tutte le orazioni attribuite al filosofo, attraverso una metafora che coinvolge i rapporti tra figlioli e genitori, tra mariti e mogli, tra giovani ed anziani. Su tale aspetto, Pitagora si esprime fin troppo chiaramente. Rivolgendosi ai giovani riuniti nel ginnasio, egli li avrebbe esortati"...a stimare gli anziani, mostrando che nell'universo, come nella vita, nelle città e nella natura in genere, ciò che viene prima in ordine di tempo è venerato più di quanto viene dopo. (...) Similmente lo sono gli abitanti del luogo rispetto agli stranieri, come pure i capi e i fondatori delle colonie rispetto agli abitanti ..."[19]. Naturalmente elogiato dai mille aristocratici per le parole rivolte ai giovani, Pitagora appare successivamente di fronte a questi ultimi nell'assemblea, suggerendo di edificare un tempio alle Muse allo scopo di preservare la concordia della città, in quanto le Muse "... erano note alla tradizione come una comunità e si compiacevano in sommo grado del culto comune; e poi il coro delle Muse era sempre uno e costantemente il medesimo ..."[20]. Tale affermazione, che sottolinea il riconoscimento del ruolo che la costituzione della città assegnava agli aristocratici, si arricchisce però di una sostanziale apertura, quando lo stesso Pitagora ammonisce che gli anziani" ... avrebbero dovuto considerare la patria come un deposito affidato dalla cittadinanza a tutti loro insieme e perciò governarla in modo da lasciare intendere che avrebbero trasmesso in eredità ai propri figli la fiducia in essi riposta. Il che sicuramente si sarebbe realizzato se essi si fossero fatti uguali a tutti i cittadini, sopravanzandoli esclusivamente nella giustizia."[21]. Richiamando i miti di fondazione che avevano per protagonista Ercole ed il responso manifestato ai coloni da Apollo, attraverso l'oracolo di Delfi[22], Pitagora venne dunque accolto, mentre i Crotoniati, abbandonate le concubine, costruirono "alla concordia" il nuovo tempio dedicato alle Muse (la prima realizzazione di questa nuova era) e gli affidarono l'incarico di parlare ai ragazzi presso il tempio di Apollo Pizio e alle donne presso il tempio di Hera. In questo caso, come avevano fatto i loro uomini, anche le donne crotoniati rinunciarono alla dissolutezza, depositando in voto le loro vesti preziose presso il tempio di Hera[23]. Il quadro che appare da questa tradizione confluita in Giamblico, indica un inserimento di Pitagora all'interno di una cittadinanza che, seppure nel pieno di una crisi, rappresentata emblematicamente dalla dissolutezza dei suoi costumi (un riferimento moralistico che rintracceremo anche in seguito), l'aveva superata con un adeguamento che non aveva pregiudicato l'ordinamento originario di stampo aristocratico. Le ragioni di questa crisi interna possono essere ricondotte all'azione di forze "giovani" costituite cioè da quanti erano ancora esclusi dal rigido circolo aristocratico di pieno diritto, il cui dissenso aveva preso consistenza a seguito della disfatta militare conseguita dalla vecchia classe dirigente. L'azione di queste forze che, secondo la tradizione pitagorica sarebbe stata tenuta a freno e ricomposta dallo stesso Pitagora, più verosimilmente, evidenzia una prima apertura della classe aristocratica che, attraverso il riconoscimento dei Pitagorici, aveva canalizzato questo dissenso in un ambito circoscritto alla setta dove esso rimaneva emarginato e comunque relativamente meglio controllabile. Non è un caso che Pitagora sia presentato come un irriducibile avversario della tirannide (il regime instaurato da Policrate a Samo che lo aveva spinto all'esilio), dato che, evidentemente, proprio rischi di questo tipo avevano motivato i Crotoniati ad accoglierlo. Le ragioni che portarono a questa scelta, sono dunque da mettere in relazione alla situazione interna che la città stava vivendo e che vedeva la sua classe (o casta) dirigente impegnata a difendere i propri privilegi. Una nuova idea fu quindi accolta in seno alla città. Un'idea pericolosa che poneva le premesse per sovvertire lo stato, ma che l'aristocrazia tollerava perché la dottrina pitagorica conteneva delle componenti tese a sottolineare il ruolo guida di quest'ultima. In ogni caso tale ideologia rimaneva pur sempre marginalizzata e nel giudizio sul contesto della sua accoglienza, bisogna evidenziare che l'aristocrazia si trovava in crisi sotto la pressione dei ceti subalterni. Quale polis avrebbe accolto Pitagora e le sue teorie sovversive dell'ordine cittadino se non si fosse trovata in così serissima difficoltà? Appare a questo punto come l'arrivo di Pitagora a Crotone rappresenti la risposta vincente delle forze più conservatrici della polis. Un'operazione ardita e rischiosa che dimostra la vitalità di una classe dirigente che seppure costretta a scendere a patti, riuscirà a conservare la propria supremazia per un periodo ancora abbastanza lungo. Tali risvolti si rendono manifesti anche da un episodio successivo che avrebbe visto l'esule Pitagora cercare accoglienza presso i Locresi. Questi ultimi, però, avrebbero risposto rifiutando: "Noi o Pitagora abbiamo udito che tu sei sapiente e abile, ma poiché le nostre leggi sono per noi irreprensibili, cercheremo di tenercele e restare sempre ad esse fedeli. Tu vattene altrove."[24]. Tale presa di posizione, deve essere letta alla luce della tradizionale organizzazione dei Locresi, che li qualificherà a lungo come la più chiusa ed impermeabile aristocrazia agraria dell'occidente greco, che al tempo non aveva alcuna necessità di effettuare concessioni.


L'inizio dell'emissione di moneta.
Un altro avvenimento importante relativo al periodo che stiamo trattando, è rappresentato dall'avvio all'emissione di moneta da parte di Crotone che, assieme a quella di Sibari e Metaponto, costituisce la più antica attività monetale delle colonie greche d'occidente. La datazione sembra abbastanza certa per il fatto che Crotone conia, riutilizzandola, una moneta corinzia del terzo quarto del VI secolo (550 - 525 a.C.)[25]. I risvolti legati a questa nuova attività ci danno ulteriori indicazioni sullo scenario che abbiamo delineato, ed in particolare ci permettono di gettare luce sia sulle ragioni degli avvenimenti di questo periodo, sia sui mutamenti nell'organizzazione della città che abbiamo appena esposto. Il fatto che le tre città che per prime si dotarono di moneta, sono proprio quelle che troviamo coinvolte nel conflitto che vide la prima disputa territoriale tra le colonie greche d'occidente, non può costituire una casualità ma deve contenere motivazioni sostanziali. Che gli Achei si dotino di moneta e come nel caso di Crotone, si impegnino in conflitti anche in luoghi molto lontani dai propri confini, testimonia che quest'espansione non era destinata a reperire altro terreno coltivabile, ma serviva principalmente ad imporre il proprio controllo in ambiti precisi con scopi prettamente commerciali. Ciò evidenzia anche una serie di trasformazioni nella struttura della città, dato che dotarsi di moneta, impone dei cambiamenti sostanziali nell'ordine sociale di una comunità. Tralasciando gli aspetti legati a forme vere o supposte di progresso sociale, focalizziamo invece la nostra attenzione sui risvolti che l'uso della moneta ha sui suoi equilibri interni. Le città non utilizzarono la moneta dalla loro origine, ma cominciarono a servirsene in momenti successivi, nei quali si realizzò una partecipazione alla vita pubblica di più ampie fasce di popolazione che si affiancarono alle tradizionali corporazioni di contadini che costituivano le aristocrazie. L'esigenza principale che determinò l'adozione della moneta da parte delle città è infatti, riconducibile all'affermarsi in esse di un'attività commerciale più consistente. Quest'attività era esercitata principalmente da soggetti che non possedendo terreni, rimanevano esclusi dall'assemblea e non avevano nessun potere decisionale. L'uso della moneta (il capitale circolante) dava loro un potere che, seppure non gli consentisse di assumere i diritti politici, gli permetteva economicamente di contrastare gli aristocratici, che erano gli unici detentori del capitale fondiario (la terra) e di larga parte del capitale lavoro (il possesso degli schiavi). Per questo motivo le chiuse aristocrazie greche stentarono a dotarsi della moneta, perché per le classi subalterne della città, la moneta rappresentava una forma di emancipazione economica che preludeva ad un'emancipazione civile e politica. Chi possedeva moneta, attraverso la propria ricchezza, poteva contrastare e condizionare le decisioni anche rimanendo fuori dall'assemblea. Quest'ultima era invece costituita solo da contadini che non avevano bisogno di ricorrere alla moneta, perché il loro lavoro si traduceva nella realizzazione di prodotti che servivano alla sussistenza delle proprie famiglie, mentre le eccedenze potevano essere scambiate con altre merci attraverso un semplice baratto. Questa situazione deve essere ben compresa in quanto l'indirizzo di chi possiede beni immobili come i terreni agricoli, è certamente diverso da chi possiede solo il denaro. I primi, per forza di cose, devono radicare i propri interessi sul territorio, i secondi, in virtù della natura del capitale che possiedono, possono compiere le proprie scelte in maniera diversa. In base alla propria convenienza, essi possono scegliere cosa e come comprare, quando e con chi allacciare scambi e relazioni commerciali, mentre i contadini non hanno questa libertà, in quanto la produzione agricola è sostanzialmente legata ad un indirizzo stabilito e poco modificabile. Sono quindi questi ultimi che hanno i maggiori interessi a difendere il "loro" territorio da minacce esterne, mentre i possessori del denaro, se le cose si mettono male, possono abbastanza agevolmente realizzare la loro attività da un'altra parte, visto che si tratta sempre di classi subalterne composte in maggioranza da meteci e schiavi. Per i motivi che abbiamo evidenziato, alcune città greche come Locri e Sparta, nelle quali il potere delle aristocrazie agricole si mantenne saldo più a lungo, ritardarono molto l'utilizzo della moneta. Altre invece (tra le quali Crotone) se ne dotarono più precocemente, dietro l'affermazione di classi di artigiani e commercianti o comunque di senza terra che, con il tempo, s'imposero prima economicamente e poi politicamente nella città. Potrà sembrare strano, ma furono degli stranieri (forse alcuni schiavi) che, ad Atene, organizzarono e gestirono le prime banche greche di cui esista notizia[26]. Ritornando a Crotone, il fatto che ciò accada proprio, successivamente, in un periodo che aveva visto una clamorosa sconfitta militare e la venuta di Pitagora, sta a significare che nella città si realizzò una prima affermazione, in questo caso economica, della classe popolare che, in virtù dei fatti che conosciamo, deve essere avvenuta attraverso una concessione dell'aristocrazia in difficoltà a seguito degli insuccessi maturati.

[1] Giust. XX, 2 ,3; 4, 18.
[2] Licof. 982-992. La strage è imputata anche agli stessi Siriti, che al tempo del loro insediamento nella città, avrebbero massacrato i Troiani che l'avevano colonizzata dopo la caduta di Troia. Secondo Strabone (VI, 1, 14) la prova di questo fatto sarebbe stata il simulacro della dea, che aveva gli occhi chiusi perché non aveva voluto vedere il massacro.
[3] Giust. XX, 2, 3-5.
[4] Giust. XX 2, 10 -3, 9; Diod. VIII, 32 Vogel; Livio XXIX, 18, 16; Strab. VI, 1, 10.
[5] Giust. XX 2, 10.
[6] La cronologia di questi avvenimenti si basa sulle vicende relative a Pitagora. Considerato che l'arrivo del filosofo a Crotone ci è stato tramandato come un fatto conseguente alla tirannide di Policrate a Samo (circa 532 a.C.) ed immediatamente successivo alla sconfitta dei Crotoniati contro i Locresi, la battaglia della Sagra viene in genere fatta risalire intorno al 530 a.C., anche se alcuni, sempre in maniera ipotetica, sono propensi a spostarla più indietro nel tempo. Meno precisa è invece la datazione della guerra contro Siris, della quale sappiamo solo che fu precedente alla battaglia della Sagra. In genere le date proposte oscillano attorno al 560 a.C.
[7] Livio XXIX, 18, 16.
[8] Giust. XX, 2, 5; 1.
[9] Strab. VI, 1, 10.
[10] Giust. XX, 3, 4.
[11] Strab. VI, 1, 10.
[12] G. De Sensi Sestito, op. cit. p. 235.
[13] G. De Sensi Sestito, op. cit. p. 245.
[14] A proposito vedi le considerazioni espresse da M. Giangiulio, op. cit. p.251 e sgg.
[15] Sull'episodio vedi Conone, Narrat. XVIII e Paus. III, 19, 10.
[16] Strab. VI, 1, 10-12.
[17] Giust. XX, 4, 1-2.
[18] Giamb. 30; 140.
[19] Giamb. 37.
[20] Giamb. 45.
[21] Giamb. 46.
[22] Giamb. 50-52.
[23] Giamb. 56.
[24] Dicearco, fr. 34 W.
[25] N. Franco Parise, Le Emissioni Monetarie di Magna Grecia fra VI e V sec. a.C., p. 307-309, in op. cit., Cangemi ed. 1987.
[26] D. Musti, L'economia in Grecia, p. 112, Universale Laterza, 1987.


capitolo quinto

La distruzione di Sibari.
Nell'ultima parte del VI secolo[1] la situazione di conflitto evidenziata in precedenza, determinò avvenimenti fondamentali nella storia di Crotone, a cominciare da ciò che la tradizione ha esemplificato nel racconto della distruzione di Sibari, dove è sottolineata la scomparsa della città nel breve arco di pochi giorni, attraverso un eclatante ed amaro epilogo. Come a proposito di Siri, anche in questo caso e per le stesse ragioni, non si può pensare ad una distruzione che avrebbe portato alla cancellazione della città. Le acque del Crati[2] che i Crotoniati avrebbero deviato sulle rovine della città, considerata tra le più prospere ed opulente del modo greco, costituiscono solo una metafora, con la quale fu rappresentata la fine di una società che aveva superato una certa dimensione prevalentemente aristocratica ed agraria, e si era incamminata verso uno sviluppo che il moralismo greco condannerà senza possibilità di appello. Né vale molto quanto a proposito hanno scritto gli storici antichi, che giustificarono il crollo della potenza dei Sibariti con la decadenza dei loro costumi. Tale ricostruzione moralistica, che tende a delegittimare gli sconfitti, nasconde, come al solito, una situazione più sostanziale, che prende le mosse dagli avvenimenti che, sul finire del VI secolo, portarono Telis alla costituzione di un regime tirannico a Sibari. Questo fatto, alla luce degli avvenimenti scorsi, deve essere stato visto dai Crotoniati, o almeno dal gruppo di potere al governo, con sicura preoccupazione. Ciò in virtù dei legami che fino a quel momento erano esistiti con Sibari. Un vicino legato da vincoli di stirpe e da solidi rapporti, come dimostrano gli avvenimenti passati e come ci è riferito, anche in questo caso, relativamente all'asilo che i Crotoniati avrebbero concesso agli esuli allontanati in seguito alla tirannide, ed al legame sentimentale che ci sarebbe stato tra il crotoniate Filippo e la figlia di Telis. Questo Filippo è una figura particolarmente rappresentativa per i fatti che stiamo descrivendo. Egli è presentato come il promesso sposo della figlia di Telis, mentre poi sarebbe stato esiliato, proprio in virtù di questo suo legame, a seguito del precipitare dei rapporti tra Sibari e Crotone[3]. Per quanto possiamo costatare, l'esilio di Filippo rappresenta una diaspora determinata da un contrasto interno verificatosi prima dello scontro con Sibari, nel quale si evidenziano le crepe interne che determineranno il crollo dello stato aristocratico crotoniate. La situazione interna della città non era delle più rosee per chi deteneva il potere sin dall'epoca della sua fondazione. In essa si annidava un dissenso che si era delineato già dall'indomani della sconfitta patita ad opera dei Locresi.

 

La triste storia di Filippo e Dorieo.
Il ruolo assegnato a Filippo dalla tradizione, in relazione ai fatti che determinarono la distruzione di Sibari, dimostra di essere stato costruito con una serie di intenti precisi, che si riferiscono ad una frattura all'interno della società aristocratica sia a Sibari sia a Crotone. In tal senso, questa situazione è sottolineata attraverso il collegamento con la figura di Telis, ma anche quando si riferisce che Filippo, ormai esule, si sarebbe unito alla spedizione in Sicilia di Dorieo[4], il personaggio al quale i Sibariti attribuivano la colpa di aver aiutato i Crotoniati a distruggere la loro città. Erodoto riferisce che ai suoi tempi (circa la metà del V secolo) i Sibariti testimoniavano in questo senso, mentre i Crotoniati ammettevano solo di essere stati sostenuti da Callia di Elide, al quale avevano dato asilo dopo che si era allontanato da Sibari[5]. Per comprendere la natura di questa polemica, serve comunque chiarire meglio la storia dei due, in particolare di Dorieo che era figlio della seconda moglie di Anassandrida re di Sparta. Alla morte di quest'ultimo, la successione legittima spettò però a Cleomene, figlio della prima moglie, provocando il risentimento di Dorieo che per non restare sottomesso al fratellastro, chiese ed ottenne dagli Spartani degli uomini per partire e fondare una colonia. Inizialmente egli si sarebbe diretto in Libia senza consultare gli oracoli, ma ne fu scacciato dopo due anni. Allora Dorieo si recò a consultare la Pizia a Delfi, che gli indicò di andare a colonizzare la terra di Erice in Sicilia perché essa "apparteneva agli Eraclidi, poiché l'aveva colonizzata Eracle"[6]. A questo punto s'imbarcò per raggiungere la Sicilia e durante il viaggio, ebbe modo di aiutare i Crotoniati nella guerra contro Sibari, di erigere preso il Crati un tempio ad Atena e di accogliere con sé Filippo. Giunto in Sicilia, la spedizione però fallì, e Dorieo trovò la morte, come la maggior parte dei suoi compagni, per mano di Fenici ed Egestani. Questi ultimi avrebbero eretto una tomba per Filippo e lo avrebbero onorato come una divinità con offerte e doni votivi. Il contesto recuperabile da queste notizie, ci consente di evidenziare, che seppure l'epopea di Dorieo è ambientata all'epoca della caduta di Sibari, essa fa riferimento alla tradizione della colonizzazione dell'Italia. In particolare, tale riferimento è al mito di Ercole, con il quale si rappresenta, tanto l'episodio che vede Ercole sconfiggere Erice ed in questo modo acquisire il diritto di possesso di quelle terre, sia quello che vede lo stesso eroe macchiarsi di omicidio al capo Lacinio e predire la nascita di Crotone. Entrambe le storie ricalcano il solito schema e da questo punto di vista non ci dicono nulla di nuovo, anche se l'episodio sembra trovare un parallelo con quello che vede coinvolto Filottete[7] che, analogamente, dimostra di ricollegarsi alle vicende che riguardarono le fasi precedenti alla fondazione della città. Strabone riferisce, infatti, che mentre Filottete colonizzava Crimissa e Chone "... alcuni dei suoi compagni, essendosi spinti in Sicilia, presso Erice, sotto la guida di Egeste Troiano, fortificarono Egesta." , ribadendo successivamente[8] che i compagni di Filottete fondarono Segesta dopo essere passati dal territorio di Crotone. Questo riferimento remoto, è poi rimarcato attraverso l'episodio che attribuisce a Dorieo la fondazione di un tempio ad Atena in prossimità del Crati, che dimostra di riprodurre lo schema della fondazione del tempio di Apollo Aleo attribuito a Filottete[9]. La figura di Dorieo ci offre in ogni modo, altri spunti più pertinenti a questa fase. Essa rende conto di una serie di avvenimenti che ruotano attorno all'abbandono forzato della patria, cosa che avviene perché il principe spartano non poteva legittimamente succedere al padre nei confronti del fratellastro. Questa storia dimostra dunque, di essere stata costruita con l'intento di rappresentare l'impossibilità di attaccare i privilegi acquisiti, cosa che avrebbe portato Dorieo a divenire un esule al pari di Filippo. Questa chiave di lettura, che giustifica il ricorso alla figura di Dorieo, omologando ad essa quella di Filippo, non ci consente di indagare sulla reale partecipazione del principe spartano nei fatti relativi alla caduta di Sibari. Appare però possibile evidenziare come la base ideologica su cui poggia la polemica sibarita, sia costituita dalla rottura di quell'unità achea che aveva contraddistinto la vita delle due città fino a quel momento. Essa, infatti, si basa sull'accettazione da parte dei Crotoniati, di elementi dorici estranei a quelli che erano stati, fino a quel punto, i legami di stirpe che gli Achei avevano saputo salvaguardare.

 

Le premesse del conflitto.
Accanto alla possibilità di evidenziare le condizioni di instabilità interna alla realtà degli Achei, la tradizione ci fornisce anche una lettura dei fatti che portarono all'accendersi del conflitto, indugiando, in particolare, sulle profonde differenze che avrebbero caratterizzato le due città. Sibari viene presentata come oramai decadente e corrotta, mentre a Crotone viene riconosciuta un'identità ancora aderente ai canoni greci di giustizia e rettitudine. In questa direzione si può interpretare la notizia secondo cui i Sibariti, con molta faciloneria, avrebbero concesso la loro cittadinanza agli stranieri[10]. Scorrendo questa tradizione, troviamo che il primo atto fu una rivoluzione con la conseguente presa di potere di Telis, che provocò quella che sembra essere stata una spaccatura nella cittadinanza di Sibari, tanto che 500 cittadini furono allontanati in conseguenza dei fatti e la loro terra confiscata. Considerato che in diversi casi (Crotone, Locri, Reggio, Cuma, Agrigento) i governi aristocratici sarebbero stati composti da 1000 cittadini, possiamo supporre che, attraverso la citazione del numero degli esuli, la tradizione abbia voluto evidenziare la spaccatura della città, dove seppure s'instaurò la tirannide, la fazione sconfitta ed in esilio manteneva possibilità concrete di ritornare al potere. Telis a questo punto, avrebbe chiesto la restituzione degli esuli accolti a Crotone e di fronte all'indecisione dei Crotoniati, che avevano mandato presso di lui una delegazione di ambasciatori per trattare la questione, reagì in modo brutale e violento facendoli uccidere e scaraventare fuori delle mura. Non c'è comunque da meravigliarsi dell'atteggiamento che la tradizione attribuisce al tiranno, la descrizione di questi avvenimenti, che tendono a motivare la successiva entrata in guerra dei Crotoniati, avviene nel solco di una tradizione tutta centrata sull'inettitudine e la corruzione dei Sibariti. Sfaticati, rammolliti, dediti ai piaceri più raffinati, essi si sarebbero resi autori di atti molto riprovevoli, sfociati nel caso della guerra con Crotone, in aperte violazioni della morale e delle leggi greche, come il mancato riconoscimento dell'asilo concesso dai Crotoniati ai loro esuli e l'uccisione a tradimento degli ambasciatori. A questa corruzione annidata nella città di Sibari, la tradizione contrappone la rettitudine dei Crotoniati e l'austerità dei loro costumi. Ossequiosi e pii, al contrario dei Sibariti, essi si sarebbero posti in difesa degli esuli, affrontando i rischi di una guerra, solo per difendere dei giusti principi morali. E' in questo contesto che secondo la tradizione, Pitagora si schierò apertamente in difesa degli esuli ed in un discorso ai Crotoniati, indecisi sulla posizione da assumere di fronte ai fatti, li esortò ad intraprendere la guerra[11]. Non a caso, la tradizione riferisce che fu proprio Pitagora a convincere i Crotoniati a scendere in guerra, dimostrando di seguire il filone scontato che accreditava il filosofo quale irriducibile avversario della tirannide. Se è legittimo pensare che le simpatie dei Pitagorici andassero in direzione di una guerra e se indecisione ci fu, è certo che l'aristocrazia crotoniate si trovò di fronte ad una scelta difficile ma obbligata, minacciata com'era dall'affermazione di quest'idea così sovversiva che, dopo essere stata accolta a Sibari, rischiava di trovare rapido consenso anche all'interno della città.

 

La battaglia del fiume Traente.
Anche il resoconto della battaglia che oppose Crotoniati e Sibariti sul fiume Traente (ritenuto l'odierno Trionto) evidenzia una netta contrapposizione ideologica. In questa guerra i Sibariti secondo Diodoro siculo[12] e Strabone[13], schierarono un esercito immenso composto da 300.000 uomini, che si riducono a 100.000 secondo lo Pseudo Scimno[14]. Per Diodoro Siculo[15] i Crotoniati si contrapposero con 100.000 uomini. Tali volute sproporzioni, analogamente ai casi precedenti, sono utilizzate per sottolineare l'eccezionalità dell'avvenimento, attraverso il solito schema della vittoria dei giusti che, seppure inferiori per numero, ebbero ugualmente ragione dei nemici numerosi ma empi e corrotti. La disfatta di Sibari si sarebbe realizzata per il cedimento della sua famosa cavalleria, che sarebbe stata sconfitta per un fatto molto curioso[16]. I Crotoniati, conoscendo l'abitudine dei Sibariti di ammaestrare i cavalli, avrebbero mandato loro incontro dei suonatori di flauto. I cavalli a questo punto, si sarebbero messi a danzare disarcionando i cavalieri e lasciandoli in balia dei Crotoniati. A questo racconto che ridicolizza i Sibariti, la tradizione contrappone la virtù guerriera dei Crotoniati guidati dal loro atleta più famoso che, addirittura, oltre alle corone olimpiche, indossava la pelle di leone ed impugnava le armi di Ercole[17], l'eroe tanto caro alla tradizione di fondazione della città. Come vediamo, anche queste notizie marcano differenze pretestuose senza fondo di verità. Sappiamo che, per quanto riguarda l'epoca, gli eserciti greci, seppure a volte disponessero di piccoli contingenti di cavalleria, li utilizzavano solo durante la fase terminale di una battaglia, quando si trattava di inseguire il nemico in fuga. La famosa cavalleria sibarita rappresenta dunque, solo un'invenzione della tradizione, tesa a sottolineare l'ortodossia dei Crotoniati e della loro falange, il modello canonico greco di affrontare il nemico in battaglia. Nella sua descrizione c'è comunque un altro aspetto importante da considerare. Se, come viene riferito, essa si svolse veramente sul fiume Traente, considerato che le battaglie avvenivano convenzionalmente in prossimità dei confini, questo luogo deve essere riconosciuto come quello che al tempo divideva le due città achee. Lo svolgimento dello scontro lungo il fiume Traente, testimonia ed avvalora, infatti, quanto abbiamo in precedenza sostenuto. L'esistenza tra le due città di una zona cuscinetto, garantita dall'inviolabilità del santuario di Apollo Aleo, nel quale erano conservate le armi di Eracle consacrate da Filottete, l'eroe patrimonio comune dei Crotoniati e dei Sibariti. La sottrazione di queste reliquie da parte dei Crotoniati, che le avrebbero traslate nel tempio di Apollo della loro città[18], testimonia la rottura del patto, che fino a quel momento, aveva permesso di regolare il rapporto di vicinanza. In questo senso, come vedremo, quando i Sibariti abbandoneranno definitivamente il luogo primitivo della loro città, essi ne fonderanno una nuova presso il Traente, rimanendo sotto l'ala protettiva dei Crotoniati. In relazione alla ricomposizione dei confini, è da leggere anche l'episodio relativo all'alterazione del percorso del Crati operato dai Crotoniati, senza escludere, tra l'altro, modifiche naturali del percorso dei fiumi e del livello di falda, condizioni che in considerazione della situazione attuale, è fondato ritenere si possano essere verificate già in antico. La precisa identità sacra che hanno i fiumi nel definire i limiti politici e naturali della città greca, permettono comunque di evidenziare che da parte dei Crotoniati avvenne uno stravolgimento dell'assetto del territorio. Da una parte, ciò trova la riprovazione della tradizione e, dall'altra, evidenzia le mutazioni che si verificarono prestissimo nella sua struttura sociale.

 

La collera di Hera.
Il coinvolgimento della sfera del divino e del soprannaturale negli avvenimenti, non poteva esulare da una serie di episodi relativi ad un coinvolgimento di Hera che, come divinità poliade delle due città e per le funzioni proprie del suo culto, è stata utilizzata dalla tradizione per rappresentare l'intero quadro ideologico dell'avvenimento. Alla sua azione si associa quella del santuario delfico che, in virtù delle sue solite funzioni regolatrici, avrebbe espresso una netta condanna del comportamento etico dei Sibariti, la cui empietà si era manifestata già all'epoca della guerra con Siri, quando essi si erano astenuti dal recarsi a Delfi per espiare la loro colpa. La tradizione, infatti, registra le conseguenze, facendo partire i fatti da molto lontano. Ciò con l'intento di rendere plausibile la giusta distruzione della città, ma anche di stigmatizzare la condotta delle colonie che erano arrivate a combattersi aspramente e stavano definitivamente perdendo la dimensione aristocratica caratterizzante tutta la loro fase arcaica. Oltre all'episodio legato alla profanazione del tempio di Atena a Siri, quando gli Achei si erano comunemente macchiati di omicidio, nel passato, i Sibariti si sarebbero resi autori di altri avvenimenti riprovevoli. Come nel caso di una manifestazione di canto, quando un suonatore di cetra fu coinvolto in una zuffa ed implacabilmente ucciso, dopo essersi rifugiato presso l'altare di Hera[19]. In questo caso la dea sarebbe apparsa vomitando bile, mentre un fiotto di sangue sarebbe sgorgato alla base del suo tempio. Ciò avrebbe indotto i Sibariti a recarsi a Delfi, ma in questo caso l'oracolo avrebbe respinto la delegazione, predicendo la fine imminente della città. I chiari intenti moralistici di questa tradizione, si evidenziano poi anche nelle fasi successive che avrebbero accompagnato la catastrofe della città. La collera di Hera si sarebbe manifestata, sempre attraverso il sangue che avrebbe invaso il pavimento del tempio, sia una seconda volta, in occasione dei fatti che avrebbero portato all'uccisione degli ambasciatori Crotoniati[20], sia quando i Sibariti, oramai assediati, si scagliarono contro Telis uccidendolo ai piedi dell'altare di Hera, dove aveva cercato rifugio[21]. Quest'ultimo episodio si riferisce ad una fase successiva alla battaglia del Traente, quando i Crotoniati cinsero d'assedio Sibari, determinando al suo interno una rivoluzione che avrebbe portato all'uccisione di Telis e dei suoi seguaci. Ciò comunque non placò i Crotoniati che, dopo 70 giorni d'assedio, espugnarono la città, la saccheggiarono e la cancellarono, deviando sulle sue rovine il corso del fiume Crati[22]. Secondo Erodoto[23] gli scampati alla devastazione trovarono ospitalità presso le loro colonie tirreniche[24]. Mentre, per Strabone, i pochi sopravvissuti ritornarono ad abitare la città, ma furono in seguito scacciati dagli Ateniesi e da altri Greci al tempo della fondazione di Thurii (444 a.C.)[25]. Seppure, in questo caso, non possa sfuggire il quadro complessivo che la tradizione utilizza con intenti fin troppo evidenti, l'episodio che avrebbe visto la definitiva scomparsa della città ci permette di evidenziare un aspetto particolare solo apparentemente non consono a questa matrice. Da una parte, l'empietà dei Sibariti è costantemente rimarcata, attraverso chiari riferimenti alla contaminazione oramai irreversibile della città, che sono messi in luce anche in contrapposizione alla legittima condotta dei Crotoniati. Dall'altra, l'epilogo di tutta la vicenda avrebbe visto proprio questi ultimi commettere azioni riprovevoli, che avrebbero deviato da quella che fino a quel punto, era stata una legittima conduzione della guerra. Essi, pur avendo sconfitto i Sibariti, ed in presenza di una situazione che vedeva questi ultimi pronti ad arrendersi, si sarebbero fatti prendere la mano, lanciandosi in un attacco contro la città, che avrebbe portato ad un massacro indiscriminato, ad un saccheggio ed, attraverso la deviazione del Crati, allo sconvolgimento dell'assetto naturale di Sibari. La precisione con la quale sono descritti questi avvenimenti, porta a chiederci perché, in una tradizione che appare così dichiaratamente contro i Sibariti, proprio l'epilogo della vicenda avrebbe visto i Crotoniati uscire dall'aurea dei giusti. La risposta è insita nella presa di posizione complessiva di questa tradizione, e spiegabile attraverso gli avvenimenti successivi. Essi porteranno ad uno stravolgimento di quella che era stata la realtà originaria delle colonie, assicurata dalla loro dimensione arcaica di stampo aristocratico. Non a caso la tradizione indulgerà sempre benevolmente verso la piccola Locri, che, tenendosi strette le sue antiche e ferree leggi, riuscirà a conservare la sua realtà aristocratica per un tempo più lungo.

 

Le conseguenze.
La possibilità di circostanziare meglio la situazione, ci è offerta dalla tradizione che descrive gli sviluppi che interessarono la realtà interna di Crotone. Seppure, infatti, le fonti presentino l'avvenimento come uno scontro tra le due città achee, esso fu nella sostanza anche un conflitto che interessò le rispettive fazioni interne. La vittoria dell'una e la sconfitta dell'altra, determinarono conseguenze analoghe per entrambe, con un cambio dei governi preesistenti alla guerra. Se la sconfitta determinò la caduta della tirannide di Telis a Sibari, all'indomani della vittoria, anche tra i Crotoniati si manifestarono seri disaccordi. I Pitagorici, chiaramente schierati in difesa delle prerogative aristocratiche, volevano che gli esuli ospitati prima della guerra, potessero rientrare nella loro città per ricostituire un governo aristocratico[26], mentre un'altra fazione si opponeva a tale progetto e pretendeva di entrare in possesso della terra conquistata. Questo contrasto determinò una rivolta interna contro i Pitagorici che fu guidata da Cilone, un membro della stessa aristocrazia cittadina. La tradizione riferisce anche che egli avrebbe avuto del rancore nei confronti dei Pitagorici, in quanto gli era stata rifiutata la possibilità di entrare a far parte della setta[27]. Seppure la tradizione fornisca una ricostruzione che tende ad accentrare gli avvenimenti sui Pitagorici, è possibile evidenziare come essi interessino una realtà più complessiva, che coinvolge la situazione interna della città. In primo luogo, possiamo evidenziare come appaia singolare che la rivolta interna scoppi in rapida successione alla vittoria sui Sibariti. Nella generalità dei casi, uno stato che realizza una grande conquista, trova conseguentemente un rafforzamento della sua classe dirigente, in quest'occasione, invece, l'aristocrazia cittadina perse immediatamente il potere dopo circa due secoli di supremazia[28]. Tutto ciò ha comunque una spiegazione puntuale, perché tale avvenimento si presta ad essere letto alla luce delle considerazioni che abbiamo espresso sulle motivazioni che portarono al conflitto. Esse rendono evidente una progressiva affermazione nella città di forze nuove, la cui formazione ed organizzazione non può essere avvenuta d'incanto dopo la vittoria ma che, come abbiamo avuto modo di valutare, trovano le proprie radici più indietro nel tempo. Il fatto importante che ci è tramandato attraverso l'episodio della caduta di Sibari è quindi rappresentato dall'affermazione di un nuovo ceto, che si radica prepotentemente nella città, ottenendo una ridistribuzione del potere ed un allargamento dell'accesso all'assemblea. Ciò rappresenta non solo il crollo dei privilegi delle antiche famiglie coloniali, ma anche un duro colpo al sogno dei Pitagorici di far nascere a Crotone un nuovo ordine sociale, che li porta prima allo scontro e poi all'esilio. La rivolta determinò l'esilio dei Pitagorici e dello stesso Pitagora, che si recò a Metaponto dove sarebbe rimasto fino alla morte[29].

 

Il ruolo dei Pitagorici.
Veniamo di conseguenza ad un altro aspetto di quest'avvenimento. La tradizione presenta in maniera decisiva l'intervento di Pitagora: è lui che prima convince i Crotoniati ad accogliere gli esuli, che poi nega la loro restituzione[30] e che, di fronte all'episodio dell'uccisione degli ambasciatori, convince l'assemblea ad intraprendere la guerra[31]. E' sempre un pitagorico famoso, Milone, che guida l'esercito alla vittoria e successivamente è il rifiuto dei Pitagorici di accettare le condizioni proposte dall'assemblea che determina la rivolta interna[32]. I Pitagorici, quindi, ci sono presentati come gli attori principali di tutto l'avvenimento. Per quanto detto a proposito delle cause di questo conflitto, sappiamo invece che tale descrizione è poco verosimile, in particolare perché i Pitagorici avevano poche possibilità di condizionare l'aristocrazia cittadina che, viceversa, aveva tutta una serie di ragioni concrete per reagire al tentativo di golpe che si stava minacciosamente concretizzando sia fuori sia dentro i confini della città. Ne consegue che, in considerazione dell'interesse convergente tra la setta e l'aristocrazia contro la tirannide, tutta la tradizione che fa riferimento all'intervento di Pitagora, rappresenta solo una trovata propagandistica nata forse già in concomitanza dei fatti. Tale presa di posizione, comprensibilmente, venne assunta dai neoplatonici di epoca romana, che la valorizzarono arricchendola di episodi, proprio perché l'avvenimento ben si prestava a magnificare la loro ideologia. Non è un caso che la tradizione esasperi, fino all'inverosimile, la mollezza ed il lusso sibarita e che in questa descrizione, siano messi in risalto una serie di aspetti che appaiono come gli esatti contrari dei precetti e degli ideali pitagorici, tradizionalmente basati su una condotta di vita frugale ed austera. La guerra tra Sibariti e Crotoniati non fu quindi solo una guerra tra due stati, come con una forzatura posteriore si cercò di motivare, ma anche e soprattutto una guerra interna alle due città, che determinò una serie di scontri tra la fazione aristocratica e quella popolare, tanto dall'una che dall'altra parte. Essa fu motivata dall'esigenza dell'aristocrazia crotoniate, di reagire al dissolvimento dell'antico ordinamento di Sibari, in virtù di una serie di legami fortissimi, che risalivano alla fondazione delle due città e che, nell'episodio in questione, sono messi in evidenza attraverso l'asilo concesso agli esuli sibariti e attraverso le connessioni tra le figure di Filippo e Telis. Nella disputa s'inseriscono, in maniera naturale, le vicende della setta, che trovano ragione nella convergenza e nel supporto che l'azione dei Pitagorici aveva fornito alla fazione aristocratica della città. Ciò comunque, non portò i frutti sperati, perché l'epilogo di tutta la vicenda determinò una ricomposizione degli equilibri interni, attraverso l'affermazione di nuove forze, con le quali le antiche casate dei fondatori della patria dovettero realizzare una nuova forma di convivenza.


Un nuovo assetto istituzionale.
L'importanza di tale avvenimento, legata all'affermazione di questa nuova classe dirigente, ci porta a spendere qualche riga per cercare di descriverla. Essa ebbe certamente una natura che, ricorrendo ad un termine dei nostri giorni, si potrebbe definire trasversale. Le fonti ci informano, infatti, che la guida della rivolta fu realizzata da Cilone, un aristocratico tra i più eminenti cittadini di Crotone. Il fatto poi, che lo stesso fosse stato rifiutato dalla setta, dimostra, a prescindere dall'informazione mirata a discreditare il personaggio, che questa trasversalità si fosse delineata in tutto l'ambiente cittadino, perché oltre a riferire del coinvolgimento di personaggi eminenti dell'aristocrazia nella fazione popolare, esprime il fatto che la setta riuniva individui di tutti i ceti. Nella prima fase della rivolta, ciò determinò l'affermazione di un gruppo costituito dai popolari e dagli aristocratici che li avevano appoggiati. Nucleo che deve essere stato minoritario, dato che venne quasi subito prevaricato. Se, quindi, la crescita di questa nuova classe dirigente nasce e si realizza con il concorso dei due ceti, successivamente essa si depurò, radicalizzandosi in una forma che portò alla completa esclusione dei componenti della vecchia élite. La radicalizzazione della forma di governo, fa pensare che ciò avvenne con il concorso dei senza terra e forse di stranieri e di schiavi, al punto da sconvolgere l'assetto originario della città, come ci è tramandato dalla sommaria descrizione degli avvenimenti successivi. La rivolta capeggiata da Cilone ad un certo punto, avrebbe dato l'opportunità a Clinia di realizzare una svolta autoritaria nel governo della città. Egli, infatti, come dice Dionigi di Alicarnasso[33], si fece tiranno di Crotone in un'epoca precedente alla tirannide di Anassilao a Reggio (494-476 a. C.). Secondo la stessa fonte, con l'aiuto di schiavi, cui diede la libertà, e di esuli, egli fece in parte uccidere ed in parte esiliare i cittadini più in vista di Crotone e privò della libertà diverse città. Non abbiamo notizie circa la durata della tirannide di Clinia, ma le fonti di stampo pitagorico, tramandano che gli stessi Pitagorici avrebbero successivamente liberato la città, ricostituendo un governo aristocratico[34]. Una serie di considerazioni ci portano comunque a ritenere che tale avvenimento non fu una breve parentesi, come l'esiguità delle notizie potrebbe far ritenere, e che s'innescò in breve successione alla caduta di Sibari, come indica il collegamento che la tradizione stabilisce tra i due episodi.

 

I cambiamenti del rapporto con il territorio.
Il dissolvimento dell'antica organizzazione politica di Sibari, conseguente alla sconfitta militare, determinò da parte di Crotone l'assunzione di un nuovo ruolo nei confronti delle aree che prima erano state sotto l'influenza della rivale, ed un riequilibrio di tutto il territorio che aveva visto gli Achei convivere tra loro e con gli altri vicini, in base ad una serie di rapporti che risalivano all'epoca di fondazione. Tali cambiamenti, sembra abbiano coinvolto solo marginalmente e comunque per un tempo limitato Lao e Scindro, due centri sull'alto Tirreno controllati da Sibari, mentre dimostrano di aver interessato principalmente Pandosia e Temesa, i centri posti sulla via istmica lungo la valle del Crati, attraverso i quali si snodava la strada che da Sibari giungeva alla piana lametina. Qui i Crotoniati avevano stabilito da tempo, una delle aree di primario interesse strategico per la loro economia, ed intrattenevano relazioni amichevoli con la comunità dei Lametinoi che in un frammento di Ecateo di Mileto[35], sono citati presso il golfo omonimo e che secondo Stefano bizantino, ricadevano in un ambito controllato da Crotone. Tale rapporto che per circa due secoli aveva assicurato alla città una valida base tirrenica per i propri scambi, subì profonde modifiche successivamente alla caduta di Sibari, perché in tale area i Crotoniati realizzarono, con propri coloni, la fondazione di Terina che, da qui in avanti stabilirà una propria sovranità a scapito dei suoi antichi abitatori. Alla ricostruzione della situazione che abbiamo riassunto, apportano un sensibile bagaglio di informazioni i ritrovamenti di diverse serie di monete coniate dalla zecca di Crotone, che gli specialisti definiscono monete di alleanza, dato che la loro emissione rappresenterebbe una testimonianza della presa di possesso da parte di Crotone delle nuove aree conquistate[36]. Senza entrare nel merito di queste attribuzioni, sulle quali gli stessi specialisti non sono concordi, possiamo dire che, da parte di Crotone, queste monete rappresentano la garanzia fiduciaria delle transazioni commerciali, in un'area che nel passato, non aveva visto la stessa politica da parte di Sibari. Il tipo di controllo economico così coercitivo è dimostrato dalle stesse monete Crotone - Sibari che evidenziano, tra l'altro, la sopravvivenza di quest'ultima in una posizione subalterna. Tale aspetto, non deve portarci a ritenere che Crotone abbia occupato con propri coloni questo vasto territorio, dato che accanto a tutte le considerazioni che abbiamo già espresso, in questo caso non troverebbe ragione la migrazione dei Sibariti a Lao che, analogamente ad altri centri gravitanti nell'orbita sibarita, evidenzia per questo periodo una monetazione sui tipi della zecca di Crotone. Come abbiamo ripetuto, la situazione è invece più complessa ed articolata e dimostra la piena capacità di Crotone di gestire la nuova situazione venutasi a creare. Crotone, infatti, assunse una piena sovranità sui centri citati, come evidenziano le coniazioni di questo periodo, e tale sovranità deve essere intesa come un pieno controllo di questi centri che presuppone, comunque, la loro sopravvivenza ed una loro formale autonomia. A tale situazione fa riferimento la notizia di Dionigi di Alicarnasso, quando evidenzia che Clinia avrebbe privato della libertà diverse città[37].


La fondazione di Terina.
Esistono diverse difficoltà per datare la nascita di Terina, in quanto le fonti non ci forniscono nessuna notizia in merito, anche se attestano concordemente che la sua fondazione avvenne per opera dei Crotoniati[38]. Le analisi degli studiosi moderni la fanno comunque risalire ad una fase successiva e conseguente alla conquista di Sibari, mentre la ricerca archeologica, proprio recentemente, è arrivata a determinare il luogo nel quale sorgeva la sua area urbana, che è stata evidenziata nella piana di Lamezia. Questo atto costituisce il tassello finale di un assetto che, alle soglie dell'epoca classica, vedrà una Crotone molto trasformata rispetto a quella d'epoca arcaica. La fondazione di Terina costituisce, infatti, la stabilizzazione di una situazione di crisi interna, che in maniera evidente o più latente, si era evidenziata per almeno tutta la seconda metà del VI secolo. Tale crisi era dovuta al rigido dominio della sua élite aristocratica, ed alla sua inadeguatezza a governare il progressivo sviluppo della città. Ciò determinò una riorganizzazione, che si concretizzò attraverso quella ridistribuzione della terra chiesta a gran voce da quanti erano esclusi dalla cittadinanza. Una parte dei Crotoniati assunsero quindi la cittadinanza di Terinei, trasferendosi in un territorio già da tempo sotto l'influenza della città, che solo conseguentemente alla caduta di Sibari fu riqualificato attraverso la creazione di una nuova realtà urbana che, seppure politicamente autonoma, rimarrà sempre vicina ai Crotoniati, in virtù dei legami parentali e per la naturale posizione che Terina aveva sempre assunto all'interno del sistema economico realizzato da Crotone fin dalla sua fondazione. Tale vocazione di Terina, consentì di accogliere, in maniera pienamente soddisfacente, una nuova comunità greca autonomamente organizzata ed, attraverso questo salasso, permise ai Crotoniati di recuperare la propria situazione interna, che in questo caso trovò una sua nuova stabilizzazione. Il ristabilimento della pace interna, attraverso quest'atto consueto alla visione politica dei Greci, trova un accenno particolare nella tradizione, che ne sottolinea tutta la sua portata. Con riferimento alle vicende che videro un successivo scontro fratricida tra le fazioni interne della città, ed un secondo esilio dei Pitagorici, proprio le fonti di parte pitagorica[39], sottolineano che gli esuli sarebbero stati riaccolti nella città, morendo tutti nella difesa del territorio, in conseguenza di un attacco dei Thurini. Tale episodio, identificabile attorno al 430 a.C., coinvolgerebbe proprio Terina, dato che si ritiene che possa essere quello riferito da Polieno[40] che ricorda l'insuccesso maturato sotto le mura di Terina da parte dell'esercito thurino guidato da Cleandrida[41]. A prescindere da tale interpretazione, rimane comunque il fatto che la conclusione eroica dell'esperienza pitagorica a Crotone, rimanga legata ad un luogo fisico diverso da quello della città, che per i significati politici legati alla nascita di Terina ed al contesto di ritrovata concordia del passo in questione, rende evidente una realtà nella quale il nuovo assetto dello stato crotoniate non aveva più oppositori, ma aveva trovato ormai una decisa stabilizzazione.

[1] Considerato che l'arrivo e la permanenza ventennale di Pitagora a Crotone, sarebbe stata conseguente alla tirannide di Policrate a Samo (circa 532 a.C.) e successiva alla disfatta dei Crotoniati alla Sagra (circa il 530 a.C.), si attribuisce in genere ad una data attorno al 510 a. C. la conquista di Sibari da parte dei Crotoniati, anche se nell'incertezza dei riferimenti, alcuni propongono date più antiche.
[2] Strab. VI, 1, 13.
[3] Erod. V, 47.
[4] Erod. V, 47.
[5] Erod. V, 44 - 45 e 47.
[6] Erod. V, 42.
[7] Strab. VI, I, 13.
[8] Strab. VI, 2, 5.
[9] Il tempio di Atena Cratia attribuito all'opera di Dorieo, potrebbe essere in relazione all'area sacra di Timpone della Motta a Francavilla Marittima, dove l'indagine archeologica ha messo in evidenza la costruzione di un tempio di Atena che i Sibariti costruirono nelle prime fasi di occupazione del territorio e che si sovrappose ad un preesistente abitato dei barbari. Tale area s'inquadra nell'organizzazione extraurbana del territorio di Sibari e da questo punto di vista, riproduce le funzioni del tempio di Apollo Aleo. Le analogie che si evidenziano tra il percorso di Filippo e quello di Filottete, e la tradizione (Licof. 919) che voleva presso il Crati la tomba dell'eroe, permettono di ritenere che ci si trovi di fronte ad un richiamo pertinente alla navigazione micenea.
[10] Diod. XII, 9.
[11] Diod. XII, 9, 2-4.
[12] Diod. XVI, 9, 5.
[13] Strab. VI, 1, 13.
[14] Ps. Scimno, vv. 341.
[15] Diod. XII, 9, 5.
[16] Ateneo, XII, 19; cfr. Eliano, De Nat. Anim. XVI, 23.
[17] Diod. XII, 9.
[18] Ps. Arist., De Mir. Aus., 107.
[19] Eliano, Var. Hist., III, 43.
[20] Diod. XII, 9; Phylarch. apud Ateneo. XII, 251 d..
[21] Eraclide Pont., apud Ateneo, XII, 521.
[22] Strab. VI, 1, 13; Diod. XII, 10, 1.
[23] Erod. VI, 21.
[24] La notizia riportata dallo storico ateniese attribuisce ai Sibariti un abbandono della loro città che, in effetti, si realizzò solo nella seconda metà del V secolo, quando i dissidi nati proprio con gli Ateniesi, portarono alla fondazione di Thurii. Sembra dunque che Erodoto voglia in questo modo evidenziare una legittima presenza ateniese nella terra che un tempo era stata dei Sibariti, giustificandola con l'emigrazione dei suoi antichi e legittimi abitanti.
[25] Strab. VI, 1, 13.
[26] Aristoss. fr. 17 W; Giamb. 33; Porf. 21.
[27] Diod. X 11, 1; Giamb. 255.

[28] Giamblico (255) riferisce che fino a quando Pitagora rimase nella città, la costituzione in vigore rimase quella originaria.
[29] Giamb. 249.
[30] Diod. XXXI, 4, 2.
[31] Diod. XII 9, 4.
[32] Diod. X 11, 1; Giamb. 255.
[33] Dion. di Alic., XX 7, 3.
[34] Aristoss. fr. 17 W; Giamb. 33.
[35] Ecateo fr. 80.
[36] A questo periodo si fanno risalire le serie Crotone - Sibari, Crotone - Pandosia e Crotone - Sibari - Laos, mentre con più incertezza si assegna ad un periodo di poco precedente quella Crotone - Temesa. Ad una emissione Crotone - Terina (o secondo alcuni, Crotone - Temesa), si attribuiscono poi alcuni esemplari, che anche in questo caso si fanno risalire ad un periodo immediatamente successivo alla distruzione di Sibari. (P. Attianese, Kroton ex nummis historia, p. 42-61, ed. TS, 1992.)
[37] Dion. di Alic. XX, 7, 3.
[38] Ps. Scimno, 306 ss.; Plinio, N. Hist., III, 62; Solino, II, 10; Stefano Biz. s.v. Terina.
[39] Giamb. 264.
[40] Polieno, Strat. II, 10, 1.
[41] G. De Sensi Sestito, op. cit. p. 274.


capitolo sesto

Una nuova città e una nuova cittadinanza.
Il periodo successivo alla guerra con Sibari è descritto da Timeo[1] come una fase che avrebbe visto i Crotoniati adagiarsi nel lusso, divenendo lascivi e decadenti come era già capitato ai Sibariti. Le informazioni che possediamo, ci consegnano, invece, l'immagine di una città vitale, che attraversa una fase molto prospera della sua vita economica. La citazione di Timeo, in questo caso, deve essere letta alla luce delle considerazioni espresse riguardo alla propaganda avversa a Sibari, la cui "distruzione", può essere individuata come l'episodio che segna un cambiamento irreversibile nell'identità delle colonie. Ciò è particolarmente evidente per Crotone, che esce da una dimensione legata alla ristretta cerchia della sua élite aristocratica, per assumere un assetto diverso che, al pari di altre, la porterà a divenire una popolosa metropoli. La perdita, o comunque l'allontanamento dai canoni aristocratici, motiva la presa di posizione di Timeo che, come filo aristocratico, non fa mistero delle sue simpatie politiche. Non abbiamo notizie precise riguardo all'assetto che regolava l'organizzazione di Crotone in questo periodo, ma lo s'ipotizza sulla scorta di quanto detto a proposito del regime tirannico di Clinia. Esso, ad un certo punto, si sarebbe concluso con una pacificazione interna, consentendo il rientro degli esuli pitagorici ed il ristabilimento di un assetto aristocratico o che, quanto meno, tenne conto anche delle fazioni poste in esilio. La mancanza di altre informazioni non ci consente di dire molto di più, anche se la citazione di Timeo e la sua netta presa di distanza dalla supposta condotta disdicevole dei Crotoniati, fa ritenere che il periodo relativo non sia stato breve e che la successiva riconciliazione con gli esuli, o meglio il "ritorno" ad una forma di regime aristocratico, sia avvenuta all'interno di una cittadinanza oramai radicalmente ricomposta. Questo clima di ritrovata stabilità interna, identifica un periodo di particolare importanza per la città. Per quanto riguarda il panorama generale, esso è inquadrabile nella fase classica, che costituisce il periodo di massima affermazione del mondo greco, e coincide con la trasformazione della società oplitico-contadina, che vede la progressiva affermazione di categorie diverse di cittadini. Si tratta di commercianti ed artigiani, il cui ingresso sulla scena, dopo aver provocato le naturali tensioni, determinò una nuova fase di sviluppo. In questo senso una serie di testimonianze ci provengono dal santuario di Capo Lacinio, a riguardo della costruzione del tempio (prima metà del V secolo) di cui si conserva ancora un'unica colonna.

 

Arte, artigiani ed artisti.
Quando pensiamo ai Greci, la prima immagine che di solito ci giunge alla mente è quella di statue famose o dei grandi templi di cui ancora si conservano le rovine, in conseguenza di un'identificazione distorta, che nasce dal presupposto che il significato ed il ruolo dell'arte e dell'artista a quel tempo, fosse identico a quello che noi oggi gli attribuiamo. Bisogna invece dire, che stando almeno alle testimonianze letterarie, chi era impiegato in tali mansioni godeva di un profondo discredito. Ciò riguardava tanto chi si occupava di scalpellare una pietra da costruzione o di plasmare vasellame di uso comune, tanto l'architetto che progettava un tempio o lo scultore che ritraeva le divinità e gli atleti vittoriosi. Naturalmente ognuno era pagato in virtù delle proprie capacità ed in questo senso, ogni artista si differenziava dal proprio collega e godeva di un prestigio legato al proprio talento. Tale situazione derivava dal fatto che analogamente al commercio, a quest'attività si dedicavano quasi esclusivamente soggetti esclusi dalla cittadinanza, che per il loro precario legame con la città che li ospitava, erano guardati con sospetto dai cittadini che vedevano nei loro affari un'attività sicuramente importante, ma che allo stesso tempo non offriva le necessarie garanzie. Qualcosa di simile alla considerazione che, in genere, il commercio o l'arte hanno nel retaggio comune, dove il commerciante è spesso assimilato ad un truffatore e l'artista ad un perverso vagabondo. Il disprezzo che spesso la tradizione greca esprime verso tali attività, non è comunque imputabile alla mancanza tra i Greci di un gusto estetico o del senso degli affari, ma a motivazioni di ordine moralistico e politico, che tenevano conto delle prerogative di preminenza e di potere della classe agricola. In questo senso possono essere lette, per esempio, le affermazioni di Plutarco[2] quando dice che nessun giovane di buona famiglia sarebbe voluto diventare uno scultore come Fidia o Policleto o un poeta come Anacreonte, Filemone o Archiloco. I cambiamenti che si verificarono nella società greca durante l'epoca classica, non modificarono di molto questi concetti, ma portarono ad una maggiore affermazione sia dell'arte che del commercio, che da una parte, determinarono un notevole sviluppo economico delle città, e dall'altra, mutarono profondamente gli equilibri di potere interni, rispetto a quelli che avevano retto le società dell'epoca arcaica. A Crotone, alla fine del VI secolo, la progressiva affermazione di classi di senza terra, aveva determinato una ricomposizione della cittadinanza, nella quale erano affluite forze nuove, che ebbero la capacità di rilanciare notevolmente lo sviluppo della città. Si tratta di un processo che non ci è descritto esplicitamente, ma che possiamo registrare a seguito degli avvenimenti visti e scorrendo le vicende di questo periodo. Come del resto avvenne nel panorama generale, tale rilancio permise anche una maggiore affermazione degli artisti o in ogni caso, di quei soggetti della classe artigianale che avevano scelto di vivere del loro lavoro di bottega. Anche se nel passato non erano mancati a Crotone individui che si erano distinti nelle arti (come certo Dameos ed un certo Patrokles[3] che eseguì una statua di Apollo che i Locresi dedicarono ad Olimpia), più pertinente al periodo sarebbe stata l'attività di Zeusi di Eraclea, un pittore al quale è attribuito un famoso ritratto di Elena nel tempio di Hera[4]. L'opera che la tradizione gli riconosce, senza entrare nel merito della sua effettiva storicità, permette, usando un'allegoria pittorica, di evidenziare l'affresco di un periodo. In esso, i Crotoniati vengono ritratti nella condizione di non badare a spese, commissionando ad uno dei più reclamizzati artisti dell'antichità, di rappresentare nel loro più importante luogo di culto, la potenza e la prosperità raggiunta dalla loro comunità.


Un complesso intreccio di interessi.
La possibilità di evidenziare meglio le trasformazioni che interessarono Crotone durante il primo quarto del V secolo, ci viene offerta dall'analisi della monetazione cittadina di questo periodo che, oltre ad offrirci spunti importanti in questo senso, ci consente di trovare ragione a diversi avvenimenti che ci vengono riferiti. Alla prima metà di questo secolo, sono attribuite diverse serie di monete, che sono state variamente interpretate e che risultano di difficile e controversa attribuzione. In ogni caso, sia i simboli che vi compaiono che il loro peso, evidenziano, verosimilmente, che esse furono coniate con lo scopo di potere essere scambiate con quelle di altre città che adottavano sistemi di peso diversi[5]. Bisogna considerare che le monete greche non fornivano, come le attuali, una garanzia fiduciaria del loro valore, ma valevano in base al peso del metallo (principalmente l'argento o il bronzo) con il quale erano state realizzate. Si tratta di serie abbastanza numerose, costituite in maggioranza da nominali inferiori, che accanto al tripode (simbolo principale delle emissioni di Crotone), riportano gli emblemi di altre città, che seppure in alcuni casi, risultino di difficile attribuzione, ci permettono di avere un'idea degli interessi commerciali della città durante questo periodo. Esse attestano, in particolare, contatti con le città dello stretto e con Imera[6]. Il fatto che Crotone abbia coniato monete scambiabili con quelle di queste città, ed in particolare con Imera, testimonia i contatti commerciali con quest'ultima, o meglio l'inserimento di Crotone nel sistema di scambio che le faceva capo. L'importanza di Imera in questa fase, è in relazione al fatto che essa fungeva da luogo di scambio per i flussi commerciali che coinvolgevano le città fenicie della Sicilia e della Spagna e che si legavano al commercio etrusco lungo la rotta tirrenica, verso la quale erano radicati, in particolare, gli interessi di Reggio e di Messana. Questa serie di relazioni commerciali, trova un preciso inserimento di Crotone anche all'interno del sistema di scambio con le principali potenze economiche che, in questo periodo, regolavano il commercio tra l'oriente greco e l'occidente. In particolare quello ateniese, al quale fanno riferimento le serie di oboli Crotone - Atene con tripode e civetta[7]. Tali interessi risultano evidenti anche e soprattutto in relazione agli avvenimenti che determinarono, dato che per la loro salvaguardia le città coinvolte, ad un certo punto, entrarono in conflitto tra loro. Da una parte Messana, Reggio ed Imera intrattenevano proficui rapporti con Cartaginesi ed Etruschi, loro principali interlocutori commerciali sul Tirreno. Dall'altra, tale situazione andava a discapito degli interessi dei centri della Sicilia orientale, prima fra tutte Siracusa. Crotone, in virtù della sua posizione privilegiata per gli scambi Ionio – Tirreno che si giovava del partenariato di Terina, si trovava naturalmente a legare i propri interessi a quelli delle città calcidiesi e dei loro alleati, contro quelli siracusani. In questa fitta rete di rapporti, particolare importanza riveste il ruolo svolto da Atene che, in maniera sempre più decisa, andrà imponendosi nello scacchiere occidentale con una politica antagonista verso Siracusa. Lo scenario che abbiamo esposto, trova un preciso coinvolgimento dei protagonisti, che si mossero sulla base degli interessi che abbiamo segnalato. Anassilao, tiranno di Reggio, sposò la figlia di Terillo, tiranno di Imera e successivamente intraprese un conflitto contro Locri, mirato a minacciare gli interessi tirrenici di quest'ultima. Ciò determinò una precisa scelta di campo da parte della stessa Locri, che strinse alleanza con Siracusa per difendersi dai Reggini. A Siracusa intanto nel 485 a.C. Gelone assunse la tirannide. Attraverso una politica praticata anche in seguito da altri tiranni siracusani, egli consolidò la propria posizione interna facendo affluire forzatamente a Siracusa individui provenienti da Camarina, Gela e Megara e concedendo loro la piena cittadinanza. Sfruttando il matrimonio, Gelone, inoltre, si legò a Terone, tiranno di Agrigento, mentre suo fratello Ierone assumeva il potere a Gela. Gli eventi non si fecero attendere e nel 483 a.C. Agrigento attaccò con successo Imera, determinando la fuga di Terillo che trovò rifugio presso Anassilao a Reggio.

 

Il valore della libertà.
La descrizione degli interessi in gioco e dello scenario complessivo, non bastano da soli a mettere in luce la parte avuta da Crotone ed a descrivere la sua condotta in relazione agli avvenimenti. Una più ampia delucidazione sul suo ruolo, ci viene fornita attraverso alcuni episodi tramandati dalla tradizione che, in diversi casi, si intrecciano con avvenimenti molto noti della storia greca, come per esempio, il coinvolgimento dei Crotoniati nelle guerre che opposero i Greci ai Persiani. In quest'occasione i Greci realizzarono tra di loro una larga intesa, che coinvolse molte delle città più importanti dell'epoca. Non tutti i Greci parteciparono però a questa coalizione guidata da Ateniesi e Spartani, ma diverse città si astennero o tradirono apertamente, sfruttando la minaccia per cercare di realizzare i propri interessi a danno degli avversari. Che questi fossero Greci, non poteva poi fare molta differenza. Credo si debba rimarcare tale constatazione, perché l'episodio delle guerre persiane è stato utilizzato massicciamente dalla tradizione greca per sottolineare, in maniera chiaramente retorica, la difesa dei valori di libertà alla base dell'organizzazione cittadina e l'esaltazione della grecità che si sarebbe contrapposta alla barbarie. Nella realtà le città agirono come meglio sembrò loro al momento. Siracusa, ad esempio, seppure più volte sollecitata a contribuire alla guerra, data la sua riconosciuta potenza militare, negò il proprio intervento, come del resto fecero tutte le altre città dell'occidente greco. Tra esse solo i Crotoniati intervennero. Come riferisce Erodoto[8], essi furono i Greci più lontani che decisero di portare il loro aiuto alla causa, partecipando alla battaglia di Salamina (480 a.C.) nella quale i Greci riportano una delle loro vittorie più famose. Questa isolatissima partecipazione di Crotone va attentamente valutata. Se è infatti comprensibile che le colonie occidentali non avessero interesse a farsi coinvolgere, visto che la minaccia persiana si rivolgeva contro la Grecia continentale, come va interpretata la presenza dei Crotoniati a Salamina ? La spiegazione risiede nella diversità degli interessi in gioco che, per quanto riguarda Crotone, erano in rotta di collisione con quelli di Siracusa. L'unica ragione che ci permette di spiegare la presenza dei Crotoniati a Salamina è quella che presuppone lo scopo di questi ultimi di sfruttare la mossa per consolidare i rapporti con Atene, facendo leva, allo stesso tempo, proprio sulla mancata partecipazione della rivale. L'atteggiamento di Siracusa fu infatti molto stigmatizzato dagli altri Greci, che lo considerarono alla pari di una vera e propria diserzione. In particolare, tale posizione fu assunta da Atene, che aveva tenuto il ruolo di guida nel conflitto e che non solo si proponeva autorevolmente come potenza leader nei confronti di molte città del continente greco, ma si rivolgeva anche verso occidente dove andavano sempre più concretizzandosi i suoi interessi. Interessi non estranei a quelli di Crotone come dimostrano le considerazioni espresse e gli avvenimenti successivi, e come rileva l'enfasi con la quale Erodoto[9], storico di parte ateniese, espone l'episodio relativo a Faillos (il comandante crotoniate della nave che partecipò a Salamina). Lo stesso personaggio sarà ricordato poi ancora più tardi, quando Plutarco[10] lo citerà in relazione agli omaggi che Alessandro Magno avrebbe inviato a Crotone dopo la battaglia di Isso (333 a.C.) in memoria ed in ringraziamento di quel gesto.

 

I legami tra Crotone e Imera.
Sempre riconducibile a questo contesto, troviamo un altro avvenimento che si riferisce allo scenario illustrato. E' il caso dei legami che Crotone instaurò con Imera, dei quali rimane traccia nel racconto di Pausania, dove il rapporto tra le due città è rappresentato attraverso un episodio che ha per protagonista il crotoniate Leonimo, stratega durante la guerra con i Locresi, ed il poeta imerese Stesicoro[11]. La leggenda racconta che Leonimo, ferito da Aiace durante la battaglia della Sagra, si recò a consultare l'oracolo a Delfi in quanto le sue ferite non trovavano guarigione. Secondo le indicazioni ricevute, egli andò nell'isola di Leucade e qui incontrò Elena che, intanto era divenuta la sposa di Achille. Elena allora gli spiegò di aver provocato la cecità di Stesicoro, perché il poeta l'aveva calunniata nei suoi versi attribuendole la rovina di Troia. A questo punto Elena affidò a Leonimo un messaggio da consegnare a Stesicoro che, venuto in questo modo a conoscenza della causa del suo male, compose una ritrattazione dei suoi versi e riacquistò la vista[12]. Come è evidente, la favola che vede coinvolti Leonimo e Stesicoro rappresenta una metafora che, collegando l'atto di espiazione di Leonimo e la ritrattazione di Stesicoro, sottolinea il legame tra le rispettive patrie. Seppure non conosciamo molto del rapporto che Crotone stabilì con Imera, ci rendiamo conto che esso è inquadrabile nell'ottica della scelta di campo che vede Crotone schierata apertamente contro Siracusa e i suoi alleati. Non a caso la favola esalta l'episodio più famoso della storia di Locri, principale alleato di Siracusa sulla penisola e allo stesso tempo, tradizionale antagonista di Crotone. Tale episodio, infatti, seppure ricostruito facendo ricorso a personaggi del passato e alludendo agli avvenimenti di cui furono protagonisti, mette in luce una serie di conseguenze relative al primo quarto del V secolo che, attraverso il coinvolgimento della figura di Stesicoro, evidenzia bene il contesto al quale stiamo facendo riferimento. Egli, prima di risiedere ad Imera, era stato in origine cittadino di Metauro, una città che non solo nel passato era gravitata nel controllo delle città dello stretto e che successivamente era stata conquistata da Locri ma che, durante questo periodo, era diventata nuovamente punto di attrito tra quest'ultima e Reggio, provocando la scelta dei Locresi di schierarsi a fianco di Siracusa[13]. Il coinvolgimento di tutti questi soggetti rientra, comunque, in stretta attualità con il periodo, dato che gli avvenimenti dimostrano di ruotare attorno all'episodio della presa di Imera, evento cardine preso in prestito per reclamizzare l'avvenuta affermazione siracusana in Sicilia. Esso s'inquadra nello scontro tra la coalizione guidata da Siracusa che comprendeva Agrigento e Gela, e la coalizione di città calcidiesi (Reggio, Imera e Messana) alle quali si legò Selinunte trovando il concorso logico dei Cartaginesi. L'esercito di questi ultimi guidato da Amilcare, venne però sconfitto nel 480 a.C. ad Imera da quello siracusano guidato da Gelone, prima che potesse congiungersi agli alleati greci. Con un sincronismo pieno di significati, la tradizione tramanda, addirittura, che la battaglia di Imera si sia svolta nello stesso giorno di quella di Salamina, sottolineando, a prescindere da una effettiva storicità, il legame tra i due avvenimenti. La vittoria di Imera fu, infatti, sfruttata da Gelone, che come Temistocle, l'eroe ateniese di Salamina, si attribuì il merito di aver difeso la grecità dalla barbarie. In questo modo, egli si proponeva come guida e riferimento per il mondo greco occidentale, una candidatura alla quale, come vedremo, Crotone cercherà di opporsi con tutte le proprie forze.

 

Miscello, Archia e la disputa per il controllo della Sibaritide.
Restando nel quadro di questo periodo ed ai filoni di propaganda che coinvolgono i Crotoniati, possiamo chiarire, a questo punto, alcuni aspetti che abbiamo tralasciato in precedenza. Si tratta di alcune affermazioni di Strabone (I sec. d.C.) la cui fonte è rappresentata da Antioco di Siracusa, uno storico che la tradizione considera vissuto durante la seconda metà del V secolo. Ne è esempio la tradizione di fondazione che vede coinvolti Miscello ed Archia, dove i due personaggi sono presentati come compagni di viaggio. A prescindere da ogni fondamento storico, in questa tradizione i Siracusani s'inseriscono forzatamente nella fondazione di Crotone, secondo uno schema che ne definisce anche il ruolo. Gli oracoli di fondazione, infatti, avrebbero stabilito per Siracusa la potenza, sottolineandone il ruolo di leader, mentre Crotone avrebbe goduto della salute, cosa che seppure presupponga una piena affermazione della città, sottintende un suo ruolo subalterno. Le motivazioni riferibili ad una presa di posizione di questo tipo, sono rintracciabili nel ruolo assunto dalle due città e dai loro motivi di conflitto, anche se nei passi in questione, tutto ciò trova maggiori e più specifiche delucidazioni, dato i particolari riferimenti alla sibaritide e ai limiti politici di Crotone. La rappresentazione di queste vicende è calata sul personaggio di Miscello, il fondatore di Crotone, la cui epopea viene modellata con intenti che non sembrano lasciare dubbi. Egli, infatti, avrebbe tentennato a lungo prima di abbandonare i suoi propositi di fondare la propria colonia nella piana di Sibari, contraddicendo il volere degli dei manifestatogli dall'oracolo e mettendolo più di una volta in discussione. Ciò rappresenta una violazione che, attraverso le valutazioni religiose e politiche che abbiamo evidenziato, mette in risalto l'empietà di Miscello, che non solo si manifesta attraverso la sua condotta disdicevole, ma che è sottolineata ancora più marcatamente dall'evidente difetto fisico che lo avrebbe contraddistinto. Essendo un gobbo, a rigore, egli non avrebbe neanche potuto assumere le funzioni religiose riferibili ad un capo spedizione. L'epopea di Miscello costituisce dunque una rappresentazione letteraria, che attraverso il discredito gettato sul personaggio, ha l'intento di fornire la dimensione di una situazione molto posteriore alla fondazione, che coinvolge gli interessi nell'area a nord di Crotone dove, nel periodo compreso tra la fine del VI secolo e la metà del V, si estende un suo rigido ma molto contrastato dominio. Venuto meno il controllo politico della sua comunità d'origine, la Sibaritide rappresenta un'area fortemente instabile, dove si radicano importanti interessi dei Crotoniati e dove alla metà del V secolo, troveranno finalmente concretezza quelli di Atene che, giovandosi dei buoni rapporti con questi ultimi, realizzerà un obiettivo a lungo caldeggiato. Lo dimostrano i riferimenti contenuti in un passo di Erodoto, dove Temistocle minacciava i suoi di trasferirsi a Siri alla vigilia della battaglia di Salamina[14]. Tali sviluppi fanno facilmente intendere su quali basi ed in virtù di quali interessi, si radicasse l'opposizione dei Crotoniati verso Siracusa che, per quanto riguarda le versioni riferite da Antioco, ha lasciato traccia nelle tradizioni di fondazione della città e negli episodi che avrebbero caratterizzato i primi momenti di vita delle colonie achee, come nel caso dei contrasti che sarebbero sorti tra Sibari e Taranto e che avrebbero portato i primi a favorire la fondazione di Metaponto.


La controversa origine degli Achei.
La situazione vissuta da Crotone in questo periodo, letta attraverso le testimonianze che ci provengono da Antioco di Siracusa, ci permette a questo punto di chiarire ulteriormente alcune precedenti affermazioni. In merito alle origini dei coloni, abbiamo visto che Erodoto chiamava Achei i Crotoniati, delineando con precisione la loro origine dalla Tessaglia. Antioco invece, si schiera molto diversamente, avvalorando una tradizione[15] secondo la quale gli Achei, guidati da Tisameo, avrebbero dovuto forzatamente abbandonare la loro sede originaria in Laconia al tempo degli Eraclidi (vale a dire al tempo delle invasioni doriche) trasferendosi nel Peloponneso. Il fatto che Antioco perori decisamente questa causa, trova ragione, analogamente ai casi precedenti, nella posizione che la sua patria assunse nei confronti delle colonie achee durante il primo quarto del V secolo. Tale versione che sposta nella Laconia l'origine degli Achei, stabilisce la possibilità per gli Spartani, ma anche per tutti i discendenti dei Dori (come i Siracusani), di rivendicare una supremazia su questi ultimi, perché consente di assimilarli in una realtà originaria, strutturata e dominata dagli antichi capostipiti della loro stirpe. Nel solco di questa ricostruzione, s'innesta la tradizione che voleva la fondazione di Crotone da parte degli Spartani al tempo di Polidoro[16], la supposta navigazione presso il Lacinio del re spartano Menelao[17] che risulta assimilata a quella degli eroi fondatori e la polemica riportata da Erodoto a proposito dell'aiuto che il principe spartano Dorieo aveva fornito ai Crotoniati durante la guerra contro Sibari. Quest'ultima, come già evidenziato, nasceva dal risentimento dei Sibariti che imputavano ai Crotoniati (quindi ad altri Achei) di essere ricorsi all'aiuto di elementi dorici, rinnegando l'antico vincolo di sangue. Si tratta, in conclusione, di una serie di prese di posizione che analogamente alle differenti versioni sull'origine degli Achei, avevano come unico scopo quello di propagandare posizioni di parte. Esse tendevano a legittimare la presenza di Siracusa o come nel caso dell'origine pelasgica degli Achei, quella di Atene, all'interno di un'area come la Sibaritide che invece aveva avuto una sua precisa identità etnica. La nostra analisi non ha comunque l'intenzione di scavare in ciò che potrebbe apparire come una sterile diatriba tra antichi storici, ma si ripropone di fare luce su di un periodo, la lettura del quale è possibile attraverso le giustificazioni di parte che i protagonisti fornirono per rendere conto di una serie molto precisa di avvenimenti. La loro disamina è possibile anche attraverso altri episodi che, per quanto ci riguarda, s'intrecciano con lo svolgimento delle manifestazioni olimpiche. Cercheremo meglio di capire quale fosse per i Greci il significato e la loro importanza, perché la partecipazione degli stati greci a questa o ad altre manifestazioni dello stesso tipo, fu frequentemente condizionata alle più diverse dispute politiche. Ciò ci permetterà anche di appurare il forte legame tra le vicende di Crotone e quelle dei suoi atleti, attraverso una valutazione comunque lontana da orgogliose celebrazioni di campanile.

 

I concorsi agonistici.
La pratica dell'atletica è sicuramente uno degli aspetti della vita dei Greci più mistificati dalla nostra cultura moderna, che le ha attribuito significati molto poco corrispondenti alla realtà antica. L'atleta greco dilettante, libero da interessi politici ed economici, appartiene solo ad una certa visione romantica, che ha incontrato grande entusiasmo a partire dal secolo scorso, tanto da portare all'istituzione dei moderni Giochi Olimpici. Il lavoro degli studiosi ci ha permesso invece, di conoscere una realtà abbastanza diversa, che seppure debba essere ancora indagata, puntualizza diversi aspetti che ci permettono di avere una visione sufficientemente delineata, relativamente al modo greco di praticare l'attività fisica. Senza entrare nell'analisi delle origini di questa pratica, che è comunque molto remota, possiamo dire che nell'espressione dei concorsi, essa rappresenta il frutto della mentalità agonistica e competitiva dei Greci, per i quali lo scopo non era di partecipare ad una grande riunione di fratellanza, ma di vincere e prevalere, greco contro greco. Queste competizioni avevano poco a che fare con lo sport. Esse non erano animate da uno spirito cavalleresco, quale quello che si potrebbe riferire alla classica figura dello sportsmen inglese, ma erano il frutto della mentalità agonistica dei Greci, che li portava a gareggiare tra loro in tutto quello che poteva essere materia di competizione e che si esprimeva a tutti i livelli della loro vita sociale. Le manifestazioni, infatti, non erano costituite soltanto da gare atletiche, ma comprendevano una competizione più complessiva che si manifestava in gare di diverso tipo. Dai concorsi musicali e di canto a quelli di eloquenza, dalla pittura al semplice sfoggio della bellezza fisica o dell'abbigliamento. Grande popolarità avevano poi le manifestazioni equestri che comprendevano corse di carri e di cavalcature montate. Un altro elemento che poco coincide con la realtà antica è quello legato al dilettantismo dei partecipanti, che rappresenta il cardine su cui si fonda l'olimpiade moderna. Seppure il carattere delle manifestazioni sia cambiato nelle diverse epoche, sappiamo invece che tra i Greci esisteva la figura dell'atleta professionista. I concorrenti, oltre a ricevere una serie di ricompense simboliche per le vittorie, come corone vegetali ed altro, traevano dalla loro attività un guadagno che poteva essere sia diretto che indiretto. Nel primo caso, esso si concretizzava in un premio in denaro da parte della città di appartenenza, che poteva anche attribuire all'atleta particolari privilegi, nel secondo caso, l'atleta riceveva dei riconoscimenti pubblici che ne aumentavano il prestigio ed il ruolo sociale e politico. Ciò era particolarmente vero per gli atleti che si distinguevano nelle competizioni del periodos, termine con il quale erano indicate complessivamente le quattro manifestazioni più importanti che monopolizzavano l'interesse e la partecipazione di tutti i Greci: i concorsi Olimpici, i Pitici, gli Istmici ed i Nemei. Oltre a queste competizioni, esistevano poi molte altre manifestazioni, che per il loro carattere locale non raggiungevano il prestigio di quelle citate. I concorsi del periodos, come le moderne Olimpiadi, suscitavano invece in questo senso, un incredibile interesse tra tutti i Greci che poteva essere sfruttato per le più diverse strumentalizzazioni. Venendo alla partecipazione di Crotone, registriamo, che essa ebbe modo di mettersi molto in evidenza durante i concorsi del periodos, distinguendosi, per quanto ne sappiamo, unicamente nelle manifestazioni di atletica e assumendo una popolarità che sarebbe giunta fino al punto da divenire proverbiale. Dice Strabone "...l'ultimo dei crotoniati è il primo tra i greci.."[18]. E seppure questa citazione possa comunque essere letta come un'esagerazione, le notizie in nostro possesso fanno fondatamente ritenere che i Crotoniati rappresentarono nell'antichità un vero e proprio exploit senza termine di paragone. Ciò è verosimile considerando che tali notizie sono sicuramente approssimate per difetto, in quanto fanno riferimento quasi unicamente agli atleti vittoriosi nei concorsi olimpici, mentre poco o nulla sappiamo della partecipazione dei Crotoniati nelle altre manifestazioni del periodos, se si eccettuano i personaggi comunque vincitori in Olimpia o che sono citati episodicamente, perché coinvolti in fatti diversi dalla pratica agonistica. Ci sono poi da considerare i concorsi che non rientravano nel periodos, ma che rappresentavano lo stesso importanti occasioni per mettere in vetrina le proprie qualità. C'è quindi da ritenere, che se è possibile registrare un così alto numero di vittorie nelle competizioni olimpiche, che erano considerate quelle più ambite e famose, è sensato supporre che probabilmente, anche molte competizioni minori videro la partecipazione e la vittoria dei Crotoniati. Non si deve comunque intendere quanto stiamo evidenziando come una lettura trionfalistica delle virtù atletiche di quelli che noi Crotonesi riteniamo i nostri avi, la mia sottolineatura vuole soltanto porre in evidenza, che i concorsi agonistici rappresentarono per Crotone un'eccezionale opportunità che, sfruttando l'interesse di tutti i Greci per la pratica agonistica, servì a reclamizzare e ad amplificare la sua immagine di città florida e potente. Ciò non deve essere sottovalutato cogliendo esclusivamente l'aspetto sportivo delle vittorie, perché fu anche attraverso questa propaganda che i Crotoniati riuscirono a proporsi come veri leader nei confronti di diversi altri stati greci. Ritornando a quanto ci viene documentato, ed in riferimento alle manifestazioni olimpiche, ci imbattiamo in una lunga sequenza di atleti a cominciare da un certo Daippos, che come pugile, conquistò la vittoria nel 672 a.C.. Nel VII secolo la presenza dei Crotoniati tra i vincitori di Olimpia costituisce comunque un fatto episodico, ma nel periodo compreso tra gli inizi del VI ed il primo ventennio del V, questa presenza diviene invece un predominio costante. Bisogna pensare che sulle 26 edizioni dei concorsi olimpici disputate nello spazio di un secolo (588 a.C. - 488 a.C.), i Crotoniati si aggiudicarono la vittoria in 18 occasioni (70 %), con una sequenza praticamente ininterrotta per quasi mezzo secolo (532 a.C. - 488 a.C.), costituita da 10 vittorie in 11 edizioni. Tra i protagonisti di queste imprese sono ricordati Glaukias nello stadio (588 a.C.), Likinos nello stadio (584 a.C.), Eratostene nello stadio (576 a.C.), Ippostratos nello stadio (564 e 560 a.C.), Diogneto nella lotta (548 a.C.), Timositeo nella lotta (512 a.C.), Isomaco nello stadio (508 e 504 a.C.) e Tisicrate nello stadio (496 e 492 a.C.). L'atleta più famoso fu in ogni caso il lottatore Milone, che vinse 10 volte nei concorsi Istmici, 9 in quelli Nemei, 7 in quelli Pitici e 6 volte ad Olimpia (dal 540 al 520 a.C.). Poi troviamo Astylo, un corridore che ad Olimpia vinse nello stadio e nel diaulos nel 488 a.C. come cittadino di Crotone e che poi proseguì la propria carriera come siracusano, collezionando altre vittorie nel 484 e nel 480 a.C.. Le biografie di questi atleti, come anche quella di altri, sono esaltate da veri e propri episodi leggendari, particolarmente numerosi e circostanziati per quanto riguarda Milone[19] vista la fama che derivava dalle sue numerose vittorie. Di Faillos[20], vincitore per tre volte nel penthathlon ai concorsi Pitici a Delfi, si tramanda che saltò l'incredibile misura di 55 piedi, lanciando altrettanto incredibilmente il disco fino ai 95. Di Filippo invece, cui è attribuita una vittoria ad Olimpia nel 520 a.C., non ci sono descritti i record, ma è tramandato che fosse il più bello di tutti i Greci del suo tempo[21], cosa degna di una vittoria, secondo il presupposto greco del solido legame tra bellezza e bravura.

 

L'uso politico dei concorsi.
Le vicende di Crotone durante la prima parte del V secolo e la sua particolare posizione del momento, che la trova in prima fila tra i principali antagonisti di Siracusa, oltre a poter essere messa in luce attraverso una serie di episodi già visti, è rilevabile anche dagli avvenimenti che videro coinvolti i suoi atleti e che si verificarono durante lo svolgimento dei concorsi olimpici delle edizioni di questo periodo. Ciò avvenne in virtù della straordinaria popolarità che i Crotoniati avevano accumulato, ed alle strumentalizzazioni politiche che sia essi che i loro avversari, misero in piedi per riscuotere prestigio o per denigrarsi. Il primo di questi episodi è rappresentato da un fatto verificatosi durante lo svolgimento dei concorsi del 484 a.C.. In quest'occasione Astylo di Crotone al momento di essere proclamato vincitore, si dichiarò siracusano ed in conseguenza di tale gesto venne esiliato da Crotone. La prima considerazione è che lo smacco per i Crotoniati deve essere stato enorme. Proprio in occasione di un avvenimento così importante, che calamitava un così vasto interesse, il campione del momento aveva cambiato bandiera, assumendo quella della rivale che s'intendeva colpire. Hanno ben ragione le fonti[22] che riferiscono dell'ira dei Crotoniati. Essi ne avrebbero decretato l'esilio, accanendosi per dileggio contro le statue che gli avevano fatto erigere e destinando la sua casa a pubblica prigione. In termine di paragone è come se Carl Lewis in piena guerra fredda, all'atto di ricevere la medaglia d'oro olimpica sul podio, si fosse dichiarato sovietico mettendosi a cantare l'Internazionale sotto i riflettori del mondo intero. Tali fatti ebbero comunque uno strascico ancora più esplosivo solo poco tempo dopo. Durante lo svolgimento dell'olimpiade del 476 a.C. l'ateniese Temistocle si scagliò apertamente contro Ierone di Siracusa, reo di aver negato il suo aiuto ai Greci nelle recenti guerre persiane. Temistocle, non solo chiese l'esclusione di Ierone dalle competizioni, ma dall'alto della sua fama, conquistata in occasione della storica vittoria di Salamina, aizzò addirittura la folla a linciare il tiranno. I propositi di Temistocle non trovarono seguito, perché Ierone non fu assalito e poté conquistare la vittoria olimpica nella corsa dei cavalli, godendosi un successo, che in questo caso, possiamo sicuramente considerare amplificato dalla magra figura rimediata dal suo rivale ateniese sotto gli occhi di tutti. L'azione che vede responsabile Temistocle, rappresenta un episodio molto importante, in particolare perché avviene in violazione della tregua sacra, attraverso la quale era garantita a tutti una libera e sicura partecipazione alle gare. Seppure siamo al corrente di alcune violazioni di questa tregua, sappiamo che essa era molto rispettata, perché rappresentava la principale garanzia per lo svolgimento delle manifestazioni. Che Temisocle invece si sia reso autore di questa violazione è un fatto di una gravità estrema e rappresenta il caso più eclatante nella storia dell'intera manifestazione, come del resto, senza precedente era stato l'improvviso cambio di campo di Astylo.

 

Il ritiro dei Crotoniati dai Concorsi Olimpici.
Gli episodi citati danno da soli l'idea del clima incandescente che oramai caratterizzava i rapporti tra gli antagonisti, che nelle occasioni viste, erano certamente andati oltre il semplice confronto atletico. Tali episodi hanno però un'appendice apparentemente strana, in quanto successivamente alla data del voltafaccia di Astylo (484 a.C.), nessuno dei Crotoniati appare più negli elenchi dei vincitori di Olimpia è ciò proprio all'apice di quella schiacciante supremazia divenuta proverbiale. Il motivo di quest'improvvisa scomparsa non è comunque frutto di avvenimenti catastrofici, ma è desumibile dal contesto esposto e spiegabile attraverso un boicottaggio. Non è difficile rilevare sia nella reazione attribuita ai Crotoniati in conseguenza della defezione di Astylo, che in quella dell'ateniese Temistocle di fronte ai successi olimpici di Ierone, dei gesti che nascono dagli interessi in gioco e che evidenziano un notevole grado di frustrazione. Sfogarsi distruggendo monumenti, come fecero i Crotoniati, o violare leggi scrupolosamente osservate, come fece Temistocle, rappresentano azioni estreme e scomposte, che evidenziano, in definitiva, l'impossibilità di risolvere diversamente le questioni. Esse appaiono fondamentalmente circoscritte alle precise ragioni che avevano motivato Atene e Siracusa, nel quadro delle lotte che avevano visto i Greci opporsi ai barbari (Persiani e Cartaginesi), attraverso le quali, con buona pace degli ideali, entrambe cercavano di imporsi nei confronti degli altri Greci e di tutelare ed espandere i propri interessi. In questo contesto Crotone, apertamente schierata, poteva far valere la sua immagine di vera e propria regina dei concorsi. La possibilità concreta di giocare questa carta, in una situazione che si presentava altrimenti senza sbocchi, può essere individuata alla base della mossa di Crotone che si ritirò unilateralmente dai giochi, probabilmente fidando sulla propria capacità di condizionarli, in virtù del prestigio dei suoi alleati e di quello che fino a quel momento, avevano raccolto i suoi atleti. In ogni caso, l'indirizzo dei concorsi pesantemente condizionato dalle sue rivali, non rappresentava più per Crotone, quella vetrina che gli poteva consentire di fare mostra di una potenza, che aveva subito cocenti ridimensionamenti. L'affermazione di Siracusa nel mondo greco d'Occidente, non avrebbe più permesso ai Crotoniati di esportare in occasione dei concorsi la propria immagine vincente. Di quest'immagine offuscata e di questa loro decisione, rimane ricordo nella tradizione che attribuisce ai Crotoniati l'istituzione di propri concorsi agonistici[23], che avrebbero avuto lo scopo dichiarato di rivaleggiare per importanza con quelli di Olimpia. Proprio per questo, Crotone avrebbe messo in palio per i vincitori, premi ricchissimi in contrapposizione ai premi simbolici che erano conferiti ad Olimpia[24]. Seppure tali argomenti siano da leggere alla luce di quanto abbiamo detto a proposito di premi e di giochi, rimane la rappresentazione di una realtà che vide per i Crotoniati notevoli difficoltà per il mantenimento di una linea di condotta antagonistica verso Siracusa.


Gli sviluppi del periodo e le conseguenze sulla situazione interna della città.
Aver particolarmente indugiato su episodi della storia della città che coinvolgono spedizioni quasi simboliche (la partecipazione a Salamina) o fatti legati alla pratica agonistica, non deve portare a credere che gli interessi di Crotone si giocassero solo in ambiti che coinvolgevano questioni di prestigio in terre lontane, perché tali fatti ebbero una serie di ricadute, che interessarono uno scenario molto più prossimo ai suoi confini. A questo periodo viene infatti riferita una conquista locrese di Temesa, che seppure non è citata esplicitamente, rimane desumibile da un passo di Strabone, nel quale si cita la leggenda del locrese Eutimo, che ritornando vincitore da Olimpia, avrebbe liberato Temesa dal demone che la opprimeva[25]. La leggenda riferisce l'episodio della sottrazione di Temesa all'influenza dei Crotoniati (il demone), da parte dei Locresi simboleggiati da Eutimo, con un riferimento temporale che rimane coincidente con le vittorie olimpiche di quest'ultimo (484, 480 e 472 a.C.). Non è un caso che tale avvenimento venga proposto attraverso il coinvolgimento del più famoso olimpionico locrese e che i fatti vengano ricostruiti sullo sfondo dei concorsi olimpici. L'episodio che vede protagonista Eutimo e le lodi di Pindaro (Olimpiche X e XI) dedicate alla vittoria nel 476 a.C. di un altro locrese, Agesidamo, stanno a confermare un indirizzo politicizzato dei concorsi di questo periodo che vedono alla ribalta proprio le rivali di Crotone. Il panorama si presenta però fluido ed in costante evoluzione, in relazione alla precarietà ed alla complessità degli equilibri in gioco, permettendo ai Crotoniati di arginare in qualche modo la situazione. Ciò dimostra di essere stato favorito dallo stato di improvvisa precarietà che si manifestò a Siracusa in conseguenza della morte di Gelone (478 a.C.), e dei contrasti che si crearono per la successione tra i suoi due fratelli, Polizelo e Ierone. Quest'ultimo assunse il potere, non senza subire però, una serie di contraccolpi interni ed esterni. Anassilao, infatti, cercò di sfruttare l'instabilità del momento attaccando Locri, ma l'intervento di Ierone provocò il ritiro delle truppe reggine. E' in questo frangente (477 a.C. ) che secondo Diodoro siculo[26] i Sibariti tentarono di ricostituire la loro città, fidando sull'aiuto di Ierone, che allo scopo, promise l'invio di una spedizione comandata da Polizelo. Quest'ultimo, temendo che questa fosse una mossa del fratello per toglierlo di mezzo, si guardò bene dall'assumere il comando delle operazioni, con il risultato che i Sibariti non riuscirono a ricostituire la loro autonomia, non si capisce bene dal brano, se per il mancato aiuto siracusano o a seguito di un intervento dei Crotoniati. In ogni caso, anche quest'episodio, se ce ne fosse bisogno, conferma il fatto che Sibari non fu rasa al suolo, perché i Crotoniati non sarebbero intervenuti contro muratori e carpentieri impegnati nella costruzione delle proprie case, ma rappresenta invece il tentativo di Sibari, perfettamente integra, di sfruttare il momento propizio di difficoltà di Crotone, per sfuggire al suo controllo e ricostituire una entità politica autonoma. Proprio in questo senso vedremo che questi tentativi si ripeteranno, a testimonianza della sopravvivenza della città e della sua naturale volontà di auto determinarsi. L'intervento di Ierone al fianco dei Sibariti dimostra inoltre uno sviluppo della situazione, che nel solco degli obiettivi descritti, trova i Siracusani tesi a garantirsi il controllo di particolari settori della penisola Italiana. Ricondotte a più miti consigli Selinunte e Reggio dopo la disfatta di Imera, Siracusa, infatti, aprì le ostilità contro gli Etruschi, sui quali Ierone ottenne una storica vittoria nella battaglia navale presso Cuma (474 a.C.) e consolidò la propria presenza sul Tirreno occupando Pithecussa (Ischia) e concorrendo alla fondazione di Neapolis (Napoli). La pressione alla quale fu sottoposta Crotone, portò intanto alla determinazione di nuovi equilibri nei suoi rapporti interni. Come fa notare G. De Sensi Sestito[27], l'ostilità di Crotone nei confronti di Siracusa, determinò al suo interno un rafforzamento della sua aristocrazia ed una nuova affermazione sulla scena politica della città dei Pitagorici, che potevano far valere la loro tradizionale avversione verso la tirannide. Tale supporto ideologico rappresenta comunque solo la facciata di precisi rapporti, come quelli che Crotone allacciò durante questo periodo con Velia (fondata nel 540 a.C. dai Focei con il concorso di Poseidonia), i cui interessi sul Tirreno, a prescindere dalla presenza del pitagorico Parmenide, erano certamente antagonistici alla politica commerciale di Siracusa. Le conseguenze patite da Crotone, ebbero comunque fine in coincidenza del cambiamento di regime a Siracusa (465 a.C.) con la cacciata di Trasibulo e la fine della tirannide dei Diomenidi, che determinò la possibilità per i Crotoniati di ricostituire con essa i rapporti logorati dal precedente periodo e di inserirsi nei traffici che le facevano capo e che lungo la rotta orientale, si giovavano della florida attività commerciale di Corinto[28]. Ciò assicurò alla città il riequilibrio dei suoi rapporti interni ed esterni, anche se le modifiche intervenute ed i problemi, per cosi dire, "strutturali" della polis, faranno si che altri avvenimenti giungano a sconvolgere la situazione, visto che l'alternarsi di questi momenti, costituisce, in fondo, il naturale evolversi di ogni comunità.

[1] apud Ateneo XII 522 a, c.
[2] Plut. Per., 2, 1.
[3] Paus. VI, 19, 6.
[4] Cicerone, De Inve., II, 1, 1; Dion. di Alic., De Vet. Scrip. Cens., I.
[5] N. Franco Parise, op. cit., p. 312-313.
[6] Oltre ad alcuni stateri che non unanimemente si attribuiscono ad una serie Crotone - Messana (Messina), esistono serie di nominali inferiori che oltre al tripode recano la lepre. Questo simbolo ricorre su monete di Messana e di Reggio dal 480 a. C. alla caduta dei figli di Anassilao, ma con il 461 a.C. è abbandonato dalla monetazione di Reggio. A Messana invece, seppure interrotto per qualche tempo, si ritrova per un periodo più lungo che giunge fino al 396 a.C. (Nicola Franco Parise, op. cit. p. 313). I contatti commerciali con la Sicilia sono evidenziati anche dalle serie Crotone - Imera (stateri e nominali inferiori) che accanto al tripode riportano il tipo imerese raffigurante il gallo. La presenza in particolare di questo simbolo, sembra datare abbastanza precisamente queste ultime emissioni, dato che esso fu abbandonato dalla città siciliana dopo il 480 a. C. (Nicola Franco Parise, op. cit. p. 313). Alle monete di argento fanno seguito anche alcune serie di bronzi (P. Attianese, op. cit. p. 174) che analogamente alle precedenti, riproducono il gallo e la lepre. Seppure P. Attianese dati queste emissioni al periodo 450-420 a.C., é pensabile che esse abbiano una datazione più alta per le attribuzioni che si riferiscono alle monete d'argento che riproducono gli stessi tipi.

[7] A proposito di queste emissioni, seppure esse vengono fatti risalire da P. Attianese al periodo 460-440 a.C. (op. cit. p. 95-96), é ragionevole ritenere che siano almeno contemporanee alle serie di Velia che riportano il tipo della civetta, e che G. De Sensi Sestito (op. cit. p. 265) mette in relazione all'intensificazione dei contatti tra Velia ed Atene, in conseguenza dell'intervento di Ierone di Siracusa nel Tirreno durante gli anni 475-470 a.C.. Lo scarso numero di monete di questo tipo ritrovato é da mettere in relazione, analogamente alle serie tripode - gallo riferibili ad Imera, agli eventi politici che interessarono i rapporti tra Crotone e Siracusa durante la tirannide dei Diomenidi.
[8] Erod. VIII, 47.
[9] Erod. VIII, 47.
[10] Plut., V. di Aless., 34.
[11] Paus. III 19, 12.
[12] Accanto alla tradizione che vuole il comandante crotoniate Leonimo ferito da Aiace, vi è quell'omologa di Formione anch'egli ferito nella battaglia e poi guarito a Sparta (M. Giangiulio op. cit. p. 239).
[13] A tale contesto sembra poter fare riferimento il coinvolgimento di Reggio nei fatti della Sagra riportato da Strabone (VI, 1, 10). Secondo G. De Sensi Sestito (op. cit. p. 255) l'attacco di Anassilao a Locri sarebbe stato mirato contro Metauro.
[14] Erod.VIII, 62.
[15] Polibio II, 41, 4; Paus. VII, 1, 7; II, 18, 6-8; Strab. VIII, 5, 5; VIII, 7, 1.
[16] Paus. III, 3, 1.
[17] Licof. 856-861.
[18] Strab. VI, 1, 12.
[19] Paus. VI, 14, 2.
[20] Erod. VIII, 47; Paus. X, 9, 2.
[21] Erod. V, 47.
[22] Paus. VI, 13.
[23] Ateneo XII, 522.
[24] Analogamente a Crotone, anche ai Sibariti era mosso lo stesso rimprovero (Ps. Scimno 339-360) con gli stessi fini moralistici.
[25] Strab. VI, 1, 5.
[26] Diod. XI 48, 4-5.
[27] G. De Sensi Sestito, op. cit. p. 262.
[28] Agganciate ai flussi del commercio corinzio sono le numerose serie Crotone - Corinto con tripode e Pegaso volante (trioboli e dioboli), che rispetto alle serie viste precedentemente, riguardanti i rapporti commerciali con Atene, risultano molto più attestate (P. Attianese, op. cit. p.79-80). Questa situazione si evidenzia anche attraverso le emissioni di Crotone che riportano i simboli di Siracusa ed Agrigento. Le serie Tripode - Polipo (Siracusa) e Tripode - Granchio (Agrigento), entrambe ben attestate dai ritrovamenti, dimostrano una ricostituzione dei rapporti di Crotone con queste due città, che è possibile mettere in relazione con la fine della tirannide a Siracusa (465 a.C.), come del resto conferma che Siracusa conia con il simbolo del polipo solo attorno al 460 a.C. (Nicola Franco Parise, op. cit. p. 313).

 

capitolo settimo

La seconda rivoluzione contro la setta.
Le vicende che avevano interessato la città durante la prima metà del V secolo, avevano visto Crotone vivere una fase particolarmente travagliata, in ragione dell'instabilità creata dai motivi di attrito con Siracusa. Attorno alla metà del secolo, la troviamo invece in una condizione di ritrovata stabilità, in conseguenza del recupero dei rapporti con gli stati greci della Sicilia orientale e del fatto, che in ogni caso, lo stato di conflitto non aveva sostanzialmente pregiudicato i suoi interessi e le potenzialità future. Gli anni che l'avevano vista lungamente opporsi al potere siracusano, avevano però determinato al suo interno un rafforzamento dell'aristocrazia, ed un ulteriore irrigidimento di questa verso i ceti subalterni. In questo caso, bisogna pensare che in conseguenza della fase di sviluppo goduta dalla città, questi ultimi dovevano essere notevolmente cresciuti, determinando, tra l'altro, anche un consistente aumento della popolazione residente nella città. Quest'atteggiamento intransigente, accoppiato a tale fase di sviluppo, innescò una serie di avvenimenti che portarono ad una nuova guerra civile, che da una parte realizzò una definitiva eliminazione degli antichi privilegi che risalivano alla costituzione coloniale e dall'altra, determinò il definitivo allontanamento dei Pitagorici dalla città e la conclusione della loro esperienza politica. La tradizione esposta da Giamblico[1] che fa riferimento ad Apollonio, riporta che la scintilla che provocò la rivolta, fu innescata dalla proposta di alcuni esponenti dell'aristocrazia di cambiare la costituzione della città. Questa proposta, avanzata nell'assemblea da Ippaso, Diodoro e Teage, prevedeva l'estensione a tutti gli individui di condizione libera del diritto di far parte dell'assemblea, con la conseguente possibilità di accedere alle magistrature. Si prevedeva inoltre, che i magistrati fossero obbligati a fornire un rendiconto alla fine del loro mandato. La proposta avrebbe trovato l'approvazione dell'assemblea ma non dei Pitagorici, che per bocca di Alcimaco, Dinarco, Metone e Democede, si sarebbero opposti radicalmente a tale proposito. Il rifiuto di ogni mediazione, determinò una rivoluzione, durante la quale i Pitagorici furono in parte uccisi, mentre altri fuggirono guidati da Democede e Dinarco, tentando successivamente, senza riuscirci, di ritornare con le armi nella città. Anche se le fonti di parte pitagorica ambientano la rivoluzione a Crotone, Polibio riferisce che in quest'occasione, i disordini interessarono tutte le città nelle quali la setta si era stabilita[2]. I Crotoniati si riorganizzarono in una democrazia, e per risolvere la questione con gli esuli pitagorici che nel frattempo continuavano a minacciare la città dall'esterno, chiesero l'intervento di un arbitrato delle città di Taranto, Metaponto e Caulonia che si pronunciò riconoscendo le ragioni della città contro quelle dei Pitagorici. Questo fatto determinò un inasprimento dell'atteggiamento dei Crotoniati, che forti del potere raggiunto, ne approfittarono per allontanare anche diversi altri cittadini della fazione aristocratica[3]. Fu così che nel 453 a.C. i Sibariti ricostituirono la loro città[4] in conseguenza della rivolta democratica di Crotone, che di conseguenza è possibile far risalire ad una fase immediatamente precedente. Nel 448 a.C. i Crotoniati distrussero questa nuova Sibari, reprimendo un tentativo che con ogni probabilità, nasceva dalla volontà di quest'ultima di sfruttare l'incertezza del momento[5].

 

Il superamento di una tradizione.
La citazione di Polibio[6], che inserisce la rivolta scoppiata a Crotone nel quadro di un più complessivo stato di disordine e d'incertezza, comune alla realtà delle colonie durante questo periodo, esprime una situazione che difficilmente può essere trascurata al fine di ricostruire gli avvenimenti. La letteratura degli autori di parte pitagorica si dimostra troppo incline ad accentrare gli avvenimenti su Crotone e a mescolarli, nell'intento di evidenziare il ruolo che Pitagora ed i suoi avrebbero avuto nei fatti. Com'è stato invece già sottolineato a riguardo della dissoluzione di Sibari, anche in questo caso, si tratta di fatti che riguardano uno scenario più complessivo e che segnano altrettanti momenti di transizione nell'evoluzione della polis. In questo caso, proprio la citazione di Polibio evidenzia bene il contesto che abbiamo di fronte. Si tratta di una fase che vede un'instabilità diffusa, che non può essere messa in relazione solo all'attività della setta e che non è esclusivamente pertinente alla realtà di Crotone, ma che nasce da una crisi che coinvolge la struttura dei modelli cittadini, dove le prerogative ed i privilegi limitati a poche élite, entrano irrimediabilmente in contrasto con il tipo di sviluppo che aveva accompagnato il mondo greco occidentale durante il periodo. Ciò che ci è stato tramandato come la fine dell'esperienza pitagorica, rappresenta, quindi, in sostanza, il superamento definitivo della dimensione arcaica della polis. Intendendo con questo termine una frattura con la realtà arcaica che ancora sopravviveva nelle città, e che può essere identificata in quanti detenevano uno status basato su una discendenza reale, riconosciuta o in ogni caso accettata, con le origini coloniali della città. In tale direzione può essere compreso il coinvolgimento di altre città (in maniera generica, ma anche esplicitamente quando si menziona l'intervento di Taranto, Metaponto e Caulonia), la difesa nell'assemblea delle prerogative aristocratiche da parte dei Pitagorici e le ritorsioni contro gli aristocratici citate esplicitamente da Giamblico[7]. Tale serie d'implicazioni si rende comunque manifesta quando si consideri il profilo dei personaggi che la tradizione ha utilizzato nella rappresentazione degli avvenimenti in questione. Ritornando all'episodio che descrive il definitivo esilio dei Pitagorici, non è un caso che esso sia presentato coinvolgendo la figura di Milone, vanto ed emblema dell'aristocrazia cittadina e della stessa setta, artefice con la sua forza di episodi straordinari, di ineguagliabili vittorie olimpiche, della sconfitta dei Sibariti e pio sacerdote del culto di Hera[8]. Milone è infatti utilizzato con un evidente anacronismo (la vita del personaggio è pertinente a circa un secolo prima), all'interno di una tradizione dove costituisce la figura di collegamento tra l'aristocrazia cittadina e la setta pitagorica. Tale collegamento è ambientato in un ambito extraterritoriale, dove le differenze tra i due gruppi sociali (l'organizzazione politica della città e quella settaria dei Pitagorici) possono essere superate. Situazione che idealmente si realizza sul suolo sacro dove viene garantito l'asilo da parte di Hera, il culto poliade della città. E' probabilmente in questo ambito che vanno interpretati i segni che l'indagine archeologica ha rilevato nell'edificio B del santuario di capo Lacinio, la cui scomparsa[9] non solo sembra coincidere in ordine di tempo con gli avvenimenti che determinarono il definitivo allontanamento dei Pitagorici dalla città, ma sembra trovare riferimento con diversi episodi citati dalla tradizione. Secondo la descrizione fornitaci da Giamblico[10], (il quale fa riferimento a Nicomaco e ad Aristosseno[11]), mentre i Pitagorici erano riuniti nella casa di Milone, "per deliberare sui pubblici affari", essi sarebbero periti nell'incendio che nel frattempo vi appiccarono i loro concittadini di parte avversa. Dalle fiamme, solo i giovani Archippo e Liside avrebbero trovato scampo. Secondo un altro episodio[12], che però non fa riferimento esplicito alla sommossa, un giorno i Pitagorici si sarebbero trovati riuniti in un banchetto, quando una delle colonne dell'edificio che li ospitava avrebbe ceduto minacciando di ucciderli tutti. Essi, comunque, avrebbero trovato scampo grazie all'intervento di Milone che, in virtù della sua forza sovrumana, avrebbe sostenuto il tetto prima del crollo per un tempo sufficiente a che tutti, compreso egli stesso, si ponessero in salvo. Oltre a trovare una conferma generica in alcune evidenze d'incendio riscontrate nell'edificio B[13], questa tradizione sembra riferirsi più direttamente, ad una serie di problemi riguardanti la statica del suo impianto[14]. Questi semplici spunti non ci consentono di appurare un effettivo collegamento tra le vicende dei Pitagorici e quelle di quest'edificio. Tale collegamento esiste invece tra l'attività della setta e l'area che l'ospitava, dato che qui Pitagora avrebbe tenuto le sue orazioni alle donne della città[15]. A proposito delle caratteristiche della setta pitagorica, abbiamo sottolineato che essa si poneva in alternativa all'ordine politico cittadino e che si costituì a Crotone trovando la sua ragion d'essere, come supporto ideologico ad una aristocrazia impegnata a difendere i propri privilegi da un'evidente minaccia popolare. Le connessioni che è possibile evidenziare tra l'area del santuario e le attività della setta, il ruolo svolto da Hera ed il carattere prettamente extraterritoriale di quest'area, suggeriscono lo scenario complessivo e la stessa posizione politica che i Pitagorici assunsero nei confronti della città. Essi si posero a supporto degli aristocratici, ma allo stesso tempo aspiravano a costituire una diversa organizzazione sociale che negava l'ordine cittadino della polis[16]. Se ne deduce che, alla luce delle considerazioni espresse a proposito del coinvolgimento del santuario di capo Lacinio nei miti di fondazione e sulla sua pertinenza all'interno del processo di acquisizione operato dai coloni, l'edifico B fu probabilmente distrutto dagli stessi Crotoniati, perché rappresentava un simbolo legato al potere di quanti potevano vantare una discendenza collegata con l'origine e la costituzione della patria, e per questo motivo non venne mai più riedificato.

 

La morte di Milone.
In virtù dei significati che abbiamo esposto attorno alla figura di Milone, è possibile rilevare come le vicende che riguardarono il sovvertimento della cittadinanza aristocratica alla metà del V secolo, trovino una loro rappresentazione attraverso il resoconto letterario della fine di questo personaggio[17]. Secondo questa leggenda, egli sarebbe morto nel fitto di una foresta perché avrebbe cercato di spaccare un tronco che aveva trovato armato con i cunei. Mentre era intento in tale operazione, i cunei però sarebbero caduti, lasciandolo intrappolato ed in balia delle fiere che ne avrebbero fatto scempio. Milone quindi, sarebbe morto per aver sopravvalutato la sua forza straordinaria, ma tale atto di superbia, attraverso cui si tende a motivare la fine del personaggio e di riflesso quanto esso rappresentava, trova un'ambientazione che non si riferisce allo spazio dove regna l'ordine politico cittadino, ma richiama i luoghi del disordine primordiale (la foresta), attraverso cui si allude ai disordini che videro i Crotoniati dilaniarsi tra di loro in occasione della guerra civile. Tale riferimento si presta ad essere letto, in relazione alla generale convinzione greca che la stasis (la guerra civile), fosse il peggiore dei mali che potesse affliggere una città, capace di farla regredire ai più bassi livelli della sua socialità. In questo caso, essa può essere paragonata ad una foresta popolata di belve, dove non esiste più la legge dell'uomo politico, ma solo quella del suo essere in quanto tale. Sempre per quanto riguarda i richiami che la tradizione costruisce attorno a Milone, risultano evidenti i parallelismi con la figura di Ercole - l'eroe responsabile della nascita della città - come evidenti appaiono i riferimenti ad esso pertinenti da parte di Pitagora. Dotato di una forza straordinaria e protagonista di imprese sovrumane, capace di assumere le stesse sembianze dell'eroe durante la battaglia contro i Sibariti sul fiume Traente, custode del culto poliade, Milone è la figura scelta per rappresentare l'onnipotenza delle antiche casate dei fondatori della patria, prerogativa che è cancellata e mortificata con la violenza della guerra civile. In questo senso, la tradizione non risparmia una precisa critica a questo ceto, come sottolinea la fine ingloriosa di Milone che sarebbe rimasto in balia delle fiere per non aver saputo valutare le proprie forze, atto con il quale si sottintende la miopia degli aristocratici nel valutare oggettivamente la situazione che avevano di fronte.

 

L'epopea di Democede.
Gli episodi che coinvolsero il definitivo allontanamento dei Pitagorici dalla città ed il suo radicale rinnovamento, oltre a poter essere messi in evidenza attraverso una serie di valutazioni relative alla figura di Milone, possono essere seguiti analizzando le vicende del suo concittadino Democede, che è indicato come uno dei protagonisti principali di questi fatti. Egli era un medico, sulle cui vicende esiste una lunga esposizione da parte di Erodoto che mette in evidenza le virtù mediche che lo avrebbero contraddistinto[18]. Seppure la presenza di personaggi che si occuparono di medicina, ci sia nota già in riferimento all'epoca arcaica e se lo stesso Erodoto[19] sottolinei il prestigio raccolto nel mondo greco dai medici crotoniati, bisogna evidenziare che questa tradizione implica una serie di aspetti che, in parte, esulano da quelle che possiamo definire delle conclamate ed esclusive capacità professionali. Il riferimento appare strettamente connesso a classici personaggi del Pitagorismo (Democede o Filolao) o a figure vicine a quest'ideale (Alcmeone), mentre il giudizio su questo aspetto, deve tenere conto di quelle che dovevano essere le concrete possibilità del tempo che, sicuramente, non consentivano ad un medico grandi possibilità di manovra. In generale, dunque, la lettura degli episodi relativi a questi personaggi, si presta ad essere interpretata alla luce di quelli che costituiscono gli ambiti classici della medicina antica e della guarigione, dove gli aspetti religiosi sono strettamente legati a queste funzioni. Essi evidenziano nella società, la presenza di figure autorevoli capaci di far valere il loro status, attraverso cui esse possono vivere dell'esercizio di un mestiere, di un'arte e, comunque, di una capacità che, nel nostro caso, si dimostra legata all'esperienza rivelatrice del Pitagorismo. Più specificamente, come nel caso di Democede, tali figure ci consentono di risalire ad un contesto storico, perché la loro importanza ha determinato che attorno ad esse si coagulasse e si strutturasse un racconto che, per quanto ci riguarda, evidenzia il particolare momento di vita della città che stiamo prendendo in considerazione. Secondo Erodoto, Democede, figlio di Callifonte, per i contrasti che aveva con il padre, decise di abbandonare la sua città e di cercare fortuna altrove. Questo suo viaggiare lo portò prima ad Egina, poi ad Atene e quindi a Samo, dove divenne il medico personale del tiranno Policrate. In seguito alla caduta del tiranno, rovesciato dai Persiani, fu fatto prigioniero e condotto a Susa, dove grazie alla propria abilità di medico, riuscì a guarire il re Dario da una grave malattia. Per la sua bravura il re lo ricoprì di ricchezze, ma gli vietò di abbandonare la Persia, visto che temeva di perdere i suoi importanti servigi. Democede però, seppure ricchissimo, non si rassegnava a rinunciare alla propria libertà e per questo motivo allestì un piano, sfruttando, nel frattempo, il fatto di aver guarito anche la regina Atossa, con la quale pattuì un aiuto alla fuga in cambio delle cure. L'occasione gli fu data dalla ribellione dei Greci della Ionia ai Persiani. In questo caso, La regina spinse il re a preparare una spedizione per invadere la Grecia, da dove provenivano gli aiuti ai rivoltosi e propose al marito di mandare Democede in avanscoperta, allo scopo di preparare le operazioni. Il re si lasciò convincere e Democede partì sotto la vigilanza di un gruppo di Persiani. Durante la sua ricognizione, egli giunse a Taranto, dove d'accordo con Aristofilide, re della città, fece imprigionare i suoi accompagnatori, accusandoli di essere delle spie e partì per Crotone. I Persiani però furono liberati e si misero in cerca di Democede e giunti a Crotone lo trovarono nella piazza. A questo punto cercarono di catturarlo, ma seppure alcuni Crotoniati fossero pronti a consegnarlo, altri si schierarono in sua difesa, bastonarono i Persiani e predarono le loro navi. Finalmente in salvo e al sicuro, Democede, benché sessantenne, prese in sposa la figlia di Milone e per mezzo dei Persiani, che nel frattempo si apprestavano a ritornare in patria, mandò a dire a Dario che egli era divenuto il genero di un uomo illustre e potente e che in patria egli godeva di prestigio e protezione. Secondo Ateneo gli fu riservato l'onore di essere designato Pritane[20], una carica che s'interpreta come la massima magistratura della città[21].

 

La fine dell'esperienza pitagorica.
Come abbiamo detto, Democede è il personaggio responsabile di tutte le fasi che vedono scoppiare la seconda e definitiva rivolta anti pitagorica a Crotone. Egli, prima, avrebbe guidato nell'assemblea l'opposizione dei suoi contro quelli che reclamavano una nuova costituzione e, successivamente, avrebbe impugnato le armi morendo nella contesa. L'epopea di Democede scelta dalla tradizione, rispecchia, infatti, gli avvenimenti che ebbero per protagonisti i Pitagorici durante la rivolta della metà del V secolo. Allo scopo, le sue vicende iniziano con i contrasti paterni ed il conseguente abbandono della patria, attraverso cui si allude all'allontanamento dei Pitagorici dalla città. Esse successivamente si sviluppano attraverso un viaggio che, in conclusione, lo porta alla corte di Policrate a Samo, ripercorrendo all'inverso, quello fatto da Pitagora per raggiungere Crotone. Quest'inversione testimonia tutta la filosofia del racconto, sottolineando il recupero della libertà da parte di Pitagora e l'esilio di Democede. L'ambientazione scelta è quella delle guerre persiane, che non coincide con il periodo che stiamo trattando, ma che è utilizzata come contesto di riferimento, perché il racconto è centrato sul recupero della libertà, di cui proprio l'episodio delle guerre persiane rappresenta il più forte paradigma di riferimento per la cultura greca del V secolo. La libertà è recuperata da Democede rinunciando alle favolose ricchezze del re di Persia e ricorrendo alla propria astuzia. Ciò comunque, avviene principalmente grazie alla sua abilità di medico, al suo sapere, dunque sulla base di una condotta aderente ai principi della propria filosofia pitagorica, che gli permette di ricattare la regina e di fuggire. Tali significati si evidenziano anche nella conclusione della storia, quando Democede facendosi beffe del re di Persia, (secondo i Greci il più grande ed il più potente tiranno del mondo) gli avrebbe mandato a dire di essere di nuovo a pieno titolo nella sua patria. Al suo ritorno, nonostante la volontà di alcuni suoi concittadini di riconsegnarlo ai Persiani, la conclusione della sua epopea lo vede prendere in moglie la figlia di Milone, figura che, come nei casi precedenti, viene qui ripresa per evidenziare il legame tra l'aristocrazia cittadina e la setta. La favola descrive comunque un Democede oramai vecchio, sottolineando in questo modo, la conclusione definitiva dell'esperienza pitagorica che, in ogni caso, è addolcita dal compimento di un ritorno in patria che si realizza con tutti gli onori, dato che secondo Ateneo gli sarebbe stata conferita la massima carica rappresentativa della città. Possiamo quindi dire che, nella sostanza, gli episodi che possono essere messi in evidenza attraverso la tradizione permettono di evidenziare che nella città si realizzò un taglio drastico con il passato, determinando un totale ribaltamento delle posizioni di potere. Gli episodi legati a tale processo sono rimasti nella letteratura dei Neopitagorici che ne fecero una questione legata alle persecuzioni patite dai loro antichi confratelli, accentrando su di sé una serie di avvenimenti, che invece furono legati ad una crisi di crescita più complessiva della società cittadina di quel tempo. Tale conclusione, che fu invece violenta e drastica, trova ragione negli atti successivi del processo che portò alla ricostituzione della cittadinanza[22], dato che quando si furono calmate le acque, i dissidi vennero ricomposti, come avremo subito modo di vedere, anche in relazione a quanto ci è stato tramandato sull'eroismo che avrebbe caratterizzato la definitiva uscita di scena dei Pitagorici.

 

L'intervento di Atene, la nascita di Thuri e la rifondazione di Sibari.
Se notevoli trasformazioni avevano caratterizzato le vicende interne della città, altri fatti importanti, riguardanti questa volta i rapporti di equilibrio con diversi altri stati greci, coinvolsero i suoi interessi durante la seconda parte del V secolo. Tali trasformazioni presero avvio dal consistente intervento di Atene nella politica del mondo greco occidentale. Il rafforzamento del suo ruolo, prende le mosse da un rafforzamento della sua attività commerciale in occidente, che risaliva già in precedenza, ma che proprio in questa fase si potenzia notevolmente. Nell'area soggetta ai Crotoniati, la presenza ateniese si concretizzò principalmente, attraverso una serie di fatti legati alla riorganizzazione politica della sibaritide. Nel 446 a.C. i Sibariti chiesero agli Ateniesi di contribuire alla ricostituzione della loro città, trovando subito adesione al progetto. Un contingente ateniese, infatti, sbarcò in Italia con questo obbiettivo, ma la convivenza non ebbe una lunga durata, perché una serie di contrasti sorti subito dopo la costituzione della città, determinarono il suo abbandono da parte dei Sibariti. Essi si trasferirono sul fiume Traente, dove nel 444 a.C. fondarono una nuova Sibari che, seppure sorta in un luogo diverso da quello originario, mantenne l'antico nome. Come abbiamo precedentemente espresso, la localizzazione di questa nuova Sibari non rappresenta un fatto casuale. Essa si collocò fuori dai confini della vecchia città, in un'area che in passato era stata gestita con il concorso di Crotone e dove la sua rinascita ribadisce la dipendenza da quest'ultima. Nel frattempo, al primo nucleo ateniese si aggiunse un secondo contingente, costituito da Greci provenienti da diverse città del Peloponneso, che portò alla fondazione di una nuova città che fu chiamata Thuri e dichiarata panellenica. Questa serie d'importanti sviluppi della politica ateniese avvenne certamente attraverso un coinvolgimento di Crotone, in virtù dei buoni rapporti che essa aveva con Atene. Il primo atto politico di Thuri fu subito, infatti, quello della stipula di un trattato con Crotone[23]. Questi buoni rapporti però non durarono a lungo, anche in virtù delle trasformazioni che interessarono la realtà interna di Crotone. All'incirca intorno a questo periodo, si sarebbe infatti realizzato il ritorno dei Pitagorici a Crotone che, secondo quanto ci dice Polibio, avvenne attraverso l'intervento degli Achei del Peloponneso, che vennero prescelti dai Crotoniati tra i tanti che avevano offerto la loro disponibilità di mediazione[24]. Quest'avvenimento, comunque, ben difficilmente coinvolse realmente i Pitagorici. Esso, come vedremo, costituisce il preludio di un racconto romanzato, che li vede subito uscire di scena attraverso il compimento di un estremo gesto eroico nei confronti della loro patria. Più verosimilmente, attraverso tale forma di riconciliazione, tale gesto allude alla realizzazione di una nuova forma di convivenza, che deve essere inteso come la risposta ad una serie di esigenze che furono soddisfatte in un contesto di mediazione.

 

La lega Achea, la difesa di Terina e l'ascesa dei Lucani.
L'intervento degli Achei, oltre a determinare il ritorno dei Pitagorici che si trovavano esuli a Reggio, portò Crotone, Sibari e Caulonia a riorganizzare i propri rapporti sull'esempio della lega che i loro consanguinei avevano costituito nell'Acaia peloponnesiaca[25]. In questo senso, essa fu consacrata sotto la protezione di Zeus Homarios[26], un tipico culto della città di Egion in Acaia, al quale fanno esplicito riferimento le monete coniate in questo periodo dalla zecca di Crotone, sulle quali predomina l'aquila[27], classicamente riferibile a Zeus. La costituzione di questo nuovo organismo, dotato di istituzioni democratiche e guidato dai Crotoniati, non rappresenta tanto un atto nei confronti di un'incombente minaccia esterna, ma si riferisce alla stabilizzazione dei rapporti tra gli Achei che coinvolgono, in particolare, anche l'area che era stata riqualificata attraverso la nuova fondazione di Sibari. Da quella parte provenivano ancora diversi problemi e vi permaneva uno stato di pericolosa incertezza, come dimostrano gli avvenimenti che caratterizzarono i rapporti tra Crotone e Thurii di questo periodo. Seppure in maniera incerta e frammentaria, e nell'assenza di un riferimento cronologico preciso, siamo informati di un conflitto tra Thurii e Crotone che è inquadrabile in questa fase[28]. Dal racconto di Polieno[29], si apprende che i Thurini, guidati da Cleandrida, attaccarono Terina senza successo. Tale atto, riguardante un'area tradizionalmente legata a Crotone, dovrebbe corrispondere ad un episodio riportato da Giamblico[30], che non cita esplicitamente Terina ma che, a proposito del ritorno dei Pitagorici da Reggio, riferisce che questi ultimi morirono tutti nella difesa del territorio della loro patria, combattendo i Thurini invasori. Quest'episodio, che mette in luce la fine eroica dei Pitagorici e sottolinea lo stato di incertezza che caratterizzava i rapporti tra Crotone ed uno dei suoi principali vicini, contiene un riferimento molto importante, che svela uno scenario probabilmente già aperto da tempo. Dalla citazione di Polieno si apprende, infatti, che le operazioni contro Terina sarebbero state guidate da Cleandrida, un comandante che in questo periodo, avrebbe diretto anche una serie di campagne vittoriose contro i Lucani (una popolazione affine ai Sanniti, che in questa fase troviamo attestata nell'area a ridosso del massiccio del Pollino[31]).

[1] Giamb. 257.
[2] Polibio II, 39.
[3] Giamb. 257-262.
[4] Diod. XI 90, 3-4.
[5] Anche in questo caso ciò deve essere inteso come la distruzione dell'autonomia politica della città.
[6] Polibio II, 39.
[7] Giamb. 257-262.
[8] Philostr. V. Apoll. 4, 28.
[9] R. Spadea, op. cit. p. 48.
[10] Giamb. 249.
[11] Aristoss. fr. 18 W.
[12] Strab. VI, 1, 12.
[13] R. Spadea, op. cit., p. 46-47.
[14] Come hanno fatto rilevare gli archeologi, tali problemi strutturali, resero necessario "intervenire sul tetto, che doveva aver giocato un considerevole ruolo nel cedimento". (R. Spadea, op. cit. p. 47).
[15] Giamb. 50.
[16] Anche Platone ad Atene, non avrebbe istituito la sua scuola filosofica nell'agorà, ma nell'area extraurbana dell'Accademia.
[17] Strab. VI, 1, 12; Paus. VI, 14, 2.
[18] Erod. III, 125; 129-137.
[19] Erod. III, 131.
[20] Ateneo, XII, 22.
[21] M. Giangiulio, op. cit. p. 11
[22] L'episodio sembra riferirsi in ordine di tempo ai segni che l'indagine archeologica ha rinvenuto in località Vigna Nova in prossimità del fiume Esaro e di uno dei principali accessi della città. Alla probabile data del secondo venticinquennio del V secolo (475-450) in quest'area sacra, si fa risalire una deposizione votiva di oggetti metallici di vario genere (catene, attrezzi agricoli, armi) che è messa in relazione ad una liberazione di schiavi sibariti realizzata da Clinia (R. Spadea, Note Topografiche sulla Polis, in "Crotone, storia, cultura economia" BPC di Crotone, ed. Rubbettino 1992). Dalle considerazioni esposte, sembra difficile far corrispondere il periodo tirannico di Clinia con questa data, mentre appare più verosimile una ricostruzione che, escludendo i paventati schiavi sibariti, coinvolga gli stessi Crotoniati che, a questo punto, attraverso la deposizione degli oggetti che gli archeologi hanno ritrovato, avrebbero riconsacrato l'ordine politico della loro città successivamente alla rivolta.
[23] Diod. XII 11, 3.
[24] Polibio II 39.
[25] Polibio II 39.
[26] Polibio II 39.
[27] P. Attianese, op. cit. p. 100 e sgg.
[28] G. De Sensi Sestito, op. cit. p. 274 –275.
[29] Polieno, Strat., II 10, 1.
[30] Giamb. 264.
[31] G. De Sensi Sestito, op. cit. p. 274.


capitolo ottavo.

Greci e barbari.
Nelle vicende che riguardarono la vita delle città durante la seconda metà del V secolo, un ruolo particolare dimostra di essere stato quello svolto dai barbari che da secoli vivevano a contatto dei Greci, ma sui quali possediamo solo scarne testimoniane. Ad esclusione di alcuni episodi relativi alla fondazione e di qualche altro cenno, essi vengono sostanzialmente trascurati dagli storici antichi che, in questo periodo, cominciano ad interessarsi di più alle loro vicende, evidenziando, in questo modo, un cambiamento dello scenario complessivo. Tale silenzio rispecchiava una situazione che nel passato aveva visto un sostanziale predominio delle città greche nei loro confronti. In questo periodo, invece, i barbari cominciano a diventare per queste ultime un delicato problema, iniziando a trovare spazio nei resoconti degli avvenimenti, nei quali assumono, sempre più consistentemente, il ruolo di protagonisti. Seppure bisogna sfuggire da esemplificazioni e seppure le cause possono essere ritenute molteplici, da parte dei barbari, tale opportunità sembra essere stata favorita da un sostanziale momento di crisi delle città, in conseguenza del periodo di conflitto che caratterizzava i loro rapporti. A questo stato di precarietà contribuiva certamente Atene che si trovava profondamente impegnata nello scacchiere occidentale. Dopo la definitiva vittoria sui Persiani, Atene aveva notevolmente ampliato la sua influenza su vaste aree del mondo greco, giovandosi della capacità della sua flotta di gestire militarmente e commercialmente un vasto impero marittimo. Questo suo dominio fu mantenuto fino a quando le città a lei soggette non trovarono in Sparta una potenza capace di opporsi a tal egemonia. La scintilla che avviò le ostilità fu un contrasto tra Corinto, appoggiata da Sparta e Corfù che era sotto tutela ateniese, cosa che dette l'avvio alla guerra del Peloponneso. Questo conflitto, a partire dal 435 a.C., dissanguò per trent'anni il mondo greco, in una lotta senza quartiere tra Atene e Sparta nella quale furono coinvolte numerose città, che si legarono a loro attraverso patti ed alleanze. In occidente queste alleanze portarono allo scontro tra una coalizione, guidata da Siracusa, ed Atene. Crotone invece riuscì a non farsi coinvolgere, ed anche se i suoi interessi la portavano a parteggiare per Atene contro Siracusa, si mantenne neutrale rispetto ai due schieramenti, come del resto fecero tutti gli Achei. Di questa neutralità siamo informati dal racconto di Tucidide[1] che si riferisce alla marcia d'avvicinamento compiuta dalle truppe ateniesi guidate da Demostene ed Eurimedonte che nell'anno 413 a.C. si recavano a combattere in Sicilia. In questo caso quando gli Ateniesi giunsero al fiume Ilia, i Crotoniati mandarono a dirgli che non volevano che essi attraversassero il loro territorio, costringendoli ad imbarcarsi ed a continuare il viaggio per mare lungo la costa. Tale neutralità da parte dei Crotoniati può essere vista come la scelta di rimanere alla finestra, scelta che nasceva dalla speranza in un indebolimento di Siracusa e delle pressioni che quest'ultima esercitava nei confronti della città. Ma probabilmente lo scenario si presentava al momento più complesso, dato che, come abbiamo visto, i barbari erano entrati prepotentemente alla ribalta, e la loro azione disgregatrice dell'assetto dato dai Greci al territorio, consigliava di mantenere comunque un collegamento tra le città. In questo senso vanno forse valutati gli avvenimenti che con il consenso di Crotone videro la nascita di Thurii, la posizione di neutralità assunta dalla città durante la guerra del Peloponneso e gli sviluppi successivi che la trovano assumere le redini di un nuovo organismo federale, la cui costituzione aveva il preciso scopo di realizzare un efficiente argine all'espansione dei barbari.

 

La riorganizzazione federale dei Greci.
La fase che stiamo considerando comprende un periodo molto travagliato della storia del mondo greco occidentale, durante la quale cominciano ad emergere tutti i limiti della sua organizzazione cittadina. Se nel passato era stato relativamente facile per i Greci controllare i barbari in virtù di una superiore capacità militare e sfruttando la loro struttura disorganica, questa nuova fase, che trova in particolare i Lucani organizzati attraverso un'entità politica in rapida espansione, impose la ricerca di un sistema di alleanze per realizzare una risposta adeguata. I fatti sembrano essere stati favoriti dalla complessiva situazione di conflitto ed instabilità esistente tra gli stati greci nel quadro della guerra del Peloponneso che, in coincidenza della prima spedizione ateniese in Italia, portò i Campani a realizzare la conquista di Capua e di Cuma, seguiti dai Lucani che sul finire del V secolo s'impossessarono di Poseidonia. A questo punto, di fronte all'espansione dei Lucani, la lega guidata da Crotone che si era costituita sotto la protezione di Zeus Homarios, si ristrutturò, accogliendo Velia e Thuri che, per la loro posizione, erano le città più direttamente minacciate. Questa lega si costituì con a capo ancora una volta Crotone ma questa volta sotto la protezione di Hera Lacinia che, per i significati politici e religiosi del suo culto, costituisce un chiaro segnale della volontà degli alleati di reagire in difesa del loro spazio territoriale[2]. Anche in questo caso appaiono quelle caratteristiche che abbiamo avuto modo più volte di evidenziare. Si può osservare come il passaggio da una struttura (la lega consacrata a Zeus Homarios) che era nata e serviva a regolare i rapporti tra le città achee, ad una (la lega consacrata a Hera Lacinia) che invece era stata costituita con evidenti intenti di difesa del territorio minacciato dai barbari, abbia comportato la sostituzione della divinità tutelare. Nel primo caso, le caratteristiche del culto di Zeus fanno riferimento al suo ruolo di sovrano dell'ordine olimpico, ed implicano una realtà nella quale è possibile riconoscere i rapporti di convivenza tra gli stati greci. Stati comunque di stirpe achea, considerata l'epiclesi della divinità (Homarios) che riprende un classico culto dell'Acaia peloponnesiaca. Nel secondo caso, il mutare delle esigenze ed il concorso di Greci di stirpi differenti, determinarono l'accantonamento del culto di Zeus e l'adozione di quello di Hera, le cui caratteristiche rimandano chiaramente alla tutela della sovranità territoriale, continuando a ribadire il ruolo di leader dei Crotoniati, dato che l'epiclesi (Lacinia) rappresenta in tal senso una chiara testimonianza. Il ruolo ricoperto da Crotone nella federazione dimostra che in questa fase essa era la città che offriva le maggiori garanzie o che comunque essa era stata capace di imporre questo suo ruolo agli alleati, in virtù della salvaguardia dei propri interessi. Come dimostrano alcune serie monetali del periodo[3] che accanto al tripode riportano le effigie di città quali Terina, Metaponto e Pixunte, è possibile rilevare che tali interessi, oltre a riguardare aree tradizionali nelle quali si estendeva la sua influenza politica e commerciale (Terina), riguardano anche aree tirreniche più settentrionali (Pixunte) o direttamente connesse con queste (Metaponto), esposte in primo piano all'espansione che i Lucani stavano realizzando. Ma la minaccia lucana non era l'unica alla quale s'imponeva di dare una risposta, perché se da nord i Lucani insidiavano gli stati greci della penisola, un'altra grave minaccia si veniva delineando a sud. In questo periodo, infatti, in Sicilia si determinarono una serie di avvenimenti che produssero una notevole instabilità sia nei rapporti tra le città greche sia al loro interno e che coinvolsero anche gli interessi di altri, primi fra tutti quelli dei Cartaginesi. Questi ultimi avevano fondato da tempo diverse città nella Sicilia occidentale, la cui influenza si estendeva anche a città alleate di etnia diversa come agli Elimi di Segesta, confinando pericolosamente con le aree dove invece si radicavano gli interessi greci, in particolare quelli di Siracusa. Questa contrapposizione non aveva portato a sviluppi durante la spedizione ateniese in Sicilia del 415-413 a.C., durante la quale Cartagine preferì osservare una sostanziale neutralità, ma successivamente le cose cambiarono, dando modo a quest'ultima di aprire un conflitto contro le città greche di Sicilia mirato al loro assoggettamento. Prendendo a pretesto il conflitto tra Selinunte e Segesta, i Cartaginesi intervennero nel 409 a.C. al fianco dei loro alleati, distruggendo Selinunte e Imera, proseguendo poi tra il 406 e il 405 a.C., con la distruzione e l'annessione di Agrigento, Gela e Camarina. L'opposizione dei Greci guidata da Siracusa non ebbe risultato, anzi determinò all'interno di quest'ultima una serie di dissidi che, con alterne vicende, portarono all'assunzione del potere da parte di Dionisio (detto il Vecchio) che, facendo leva sugli insuccessi che erano stati conseguiti, nel 406/5 a.C. assunse la tirannide della città.

 

La tirannide di Dionisio il vecchio a Siracusa.
Anche Dionisio inizialmente non si trovò a buon partito. Fallito un suo intervento in favore di Gela, attaccata dai Cartaginesi nel 405 a.C., si trovò a dover recuperare anche una nuova rivolta interna a Siracusa, arrivando, verso la fine dello stesso anno, a stipulare una pace con i Cartaginesi che ora si trovavano a controllare gran parte della Sicilia. Raggiunta la pace, Dionisio s'impegnò a questo punto sul fronte interno, mirando a consolidare il proprio regime. Poi lanciò una campagna contro le città di Nasso, Catania e Leontini, la cui popolazione fu trasferita forzatamente a Siracusa. Anche Messana venne assoggettata, ma non così Reggio che riuscì a rimanere fuori dalle sue mire. A questo punto nel 397 a.C. Dionisio riprese le ostilità contro i Cartaginesi e, dopo alterne vicende, riuscì a ristabilire un largo dominio siracusano sulla Sicilia, arrivando nel 392 a.C. ad una nuova pace con Cartagine. All'indomani della tregua, Siracusa si trovò in possesso di un capitale territoriale molto consistente. Le città etnee (Nasso, Catania e Leontini), private di larga parte della loro popolazione, ricadevano oramai completamente nell'orbita politica di Siracusa. La ricostituzione di Agrigento e Tauromenio (Taormina) riallineava due preziosi alleati, mentre la ricostruzione di Messana, distrutta dai Cartaginesi, permetteva a Dionisio di avere un solido controllo dello stretto. In quest'occasione la cittadinanza di Messana fu ricomposta da Dionisio facendovi affluire 4000 cittadini di Medma e 1000 da Locri.

 

La prima campagna di Dionisio in Italia.
Questi avvenimenti non dovettero essere accolti con molta soddisfazione da parte delle città che aderivano alla Lega, considerando il tipo di politica intrapresa dal tiranno ed i probabili sviluppi che lasciava intravedere. Proprio la Lega, nata per realizzare la difesa contro i Lucani, dovette organizzarsi per opporsi all'espansionismo siracusano, come dimostrano gli avvenimenti successivi e come sembrerebbero indicare le adesioni di Reggio e Hipponion che sarebbero successive alla tirannide di Dionisio[4]. Si rilevano a questo punto due convergenze di obiettivi che delineano due opposti schieramenti. Del primo facevano parte le città della Lega con in testa Crotone, messe sulla difensiva e pronte a rispondere ad una serie di minacce su più fronti, il secondo fu costituito da Siracusa, con obiettivi che miravano ad estendere la sua egemonia su larghi settori del mondo greco occidentale. Essa poteva contare in Italia sull'aiuto tradizionale di Locri, ma allo stesso tempo poteva sfruttare la convergente politica dei Lucani che, con il medesimo obiettivo, attendevano il momento propizio per avanzare ai danni dei loro vicini greci, in particolare di Thurii che in questo periodo, si trovava a far da confine tra l'area occupata dai Lucani e quella greca. Come era da attendersi, dopo la campagna in Sicilia, Siracusa cominciò a dare corpo ai suoi propositi nei confronti delle città greche della penisola. Dionisio intraprese una prima spedizione contro Reggio nel 390/89 a.C. che comunque portò ad una immediata reazione da parte della Lega e ad un complessivo fallimento delle operazioni. In risposta all'offensiva lanciata da Dionisio, da Crotone salparono 60 navi in aiuto dei Reggini[5] che, venute a contatto con quelle siracusane, si trovarono inizialmente in difficoltà. A seguito però dell'intervento dei Reggini, e di una tempesta che avrebbe colpito le navi siracusane, queste furono costrette a riparare a Messana. Il pericolo fu tamponato, ma Dionisio meditando propositi di rivincita, si ritirò a Siracusa per trascorrere l'inverno, dopo aver stretto alleanza con i Lucani. A testimonianza di ciò, nella primavera successiva, i Lucani (che attendevano il momento propizio), attaccarono Thuri ma, a differenza dell'episodio precedente, in quest'occasione l'organizzazione federale della Lega sembra aver fatto cilecca. I Thurini, infatti, senza attendere l'aiuto degli alleati, avrebbero affrontato da soli il nemico rimanendo sconfitti, essendosi intestarditi ad inseguire i Lucani dopo un primo scontro vittorioso. Nella loro ritirata sarebbero però stati salvati da Leptine, fratello di Dionisio che avrebbe preso a bordo delle sue navi i superstiti e si sarebbe reso garante nei confronti dei Lucani per il pagamento del loro riscatto. Se non abbiamo motivo di mettere in discussione l'epilogo di questi fatti, la descrizione fornitaci da Diodoro siculo sembra comunque far risaltare una serie di elementi che tradiscono una ricostruzione degli avvenimenti influenzata da ragioni di parte. La ricostruzione di questi avvenimenti non avrebbe comunque per noi molto interesse, se non per il fatto che ci fornisce elementi importanti che fanno chiarezza sull'obiettivo che Siracusa si riprometteva di realizzare. Essa, nella sostanza, prevedeva di scardinare il patto che univa le città della Lega, per proporne in cambio uno proprio. Ciò traspare dalla maniera con cui ci sono proposti gli episodi che abbiamo menzionato. Il mancato funzionamento dei meccanismi che avrebbero dovuto portare all'intervento degli alleati, lo scriteriato comportamento dei Thurini, l'intervento pacificatore e garante dei Siracusani sono gli elementi di una ricostruzione tesa a propagandare l'inadeguatezza della Lega e della sua guida crotoniate, che non si sarebbe dimostrata efficiente nel garantire la sicurezza dei Greci. Per tale ruolo si proponevano invece proprio i Siracusani, la cui azione è ricostruita dalla tradizione, facendo risaltare due aspetti principali: la loro superiore capacità militare ed allo stesso tempo la loro capacità politica in grado di mantenere a freno i Lucani. L'obiettivo non era stato raggiunto durante la prima fase della campagna, ma ciò non scoraggiò Dionisio che nell'estate dello stesso anno dell'attacco lucano a Thurii, sbarcò a Locri con 20.000 fanti, circa 3.000 cavalieri, 40 navi da guerra e almeno 300 navi adibite al trasporto delle vettovaglie, ponendo l'assedio a Caulonia. A questo punto, riunita la Lega, da Crotone partì un esercito forte di 25.000 fanti e 2.000 cavalieri in soccorso dell'alleata, che fu affidato al comando di Eloride, esule siracusano nella città. Esso però fu sconfitto nel 388 a.C. presso il fiume Elleporo[6], in circostanze che ricalcano quelle che avrebbero portarono alla sconfitta dei Thurini nell'episodio precedente. Gli alleati, nella foga di soccorrere la loro avanguardia guidata da Eloride, che era entrata inaspettatamente in contatto con il nemico, persero il collegamento tra loro e fu dunque facile per i Siracusani sbaragliarli e costringerli alla fuga, visto che erano avanzati in maniera disordinata ed imprudente. In una fase successiva, l'esercito federale fu circondato e si arrese per sete, venendo risparmiato da Dionisio che concesse agli sconfitti di rientrare in salvo ma separatamente alle proprie città senza pagamento di riscatto. Come si può notare la narrazione dell'avvenimento ricalca il precedente, in entrambi i casi, le motivazioni della sconfitta sono in linea con quanto sappiamo dello svolgimento di una battaglia oplitica. Le difficoltà di mantenere uno schieramento compatto durante lo scontro, erano le motivazioni alla base dell'esito di qualunque battaglia, a maggior ragione, quando, come si usava, le falangi degli alleati si disponevano separatamente, una di fianco all'altra e ciò aumentava la vulnerabilità dello schieramento perché ne diminuiva la compattezza. Se dunque le motivazioni sono realistiche ed implicano una realtà ben conosciuta da ogni greco che almeno una volta si fosse trovato in combattimento, proprio per questo motivo sembrano essere messe in evidenza per far risaltare la fragilità e l'inadeguatezza della guida dei Crotoniati, che avrebbero determinato la sconfitta con la propria condotta o comunque, attraverso quella del comandante che avevano designato. Anche in questo caso, l'episodio si conclude con la solita munificenza dei Siracusani, che avrebbe visto Dionisio concedere agli sconfitti di ritornare in salvo e separatamente alle loro città, con un atto che sottolinea la dissoluzione della Lega e l'abbandono di ogni opposizione al tiranno.

 

La politica imperiale di uno stato greco.
Restiamo comunque alla descrizione dell'avvenimento, perché ci consente altre considerazioni. Per quanto detto, l'azione di Dionisio perseguiva uno scopo ampiamente dichiarato: provocare lo scioglimento della lega, isolare le singole città e ricondurle ad un progetto di pacificazione garantita dalla protezione siracusana. L'offerta, naturalmente, era rivolta a larghe porzioni dell'occidente greco. Dionisio persegue, infatti, una politica che potremmo definire imperialista, usando una strategia molto diversa da quella che fino a quel tempo, aveva animato la visione politica dei Greci. Abbiamo infatti visto, quali erano i limiti che impedivano la costituzione di uno stato che superasse i limiti cittadini, che in primo luogo, erano fissati da una estrema rigidità del diritto di cittadinanza. Nel suo disegno di ampliamento dei propri domini, Dionisio invece superò per la prima volta questo limite, realizzando ciò che per ogni città greca costituiva una specie di assurdo: la dilatazione a dismisura del suo corpo civico. A Siracusa ciò avvenne prima, attraverso l'assunzione della tirannide e l'estensione del diritto di cittadinanza alle classi popolari della città e poi, attraverso la deportazione a Siracusa degli abitanti di alcune città greche di Sicilia, esperimento che successivamente fu realizzato anche a carico degli abitanti di alcune città greche della penisola. Perseguendo tale disegno, successivamente alla vittoria dell'Elleporo, Dionisio attaccò le singole città oramai isolate, con lo scopo dichiarato di realizzare uno sbarramento dell'istmo a difesa dei Greci che vivevano a sud di questo confine[7]. Questo proseguimento della campagna, portò il tiranno alla distruzione di Caulonia, la cui popolazione fu trasferita a Siracusa con diritto di cittadinanza ed esenzione dalle tasse per 5 anni, ed a quella di Hipponion (389/388 a.C). Nello stesso anno i Siracusani, dopo un lungo assedio, occuparono anche Reggio. Per le città poste a sud dell'istmo, le cose andarono abbastanza male. Caulonia e Hipponion persero la loro autonomia e rientrarono in un ambito territoriale a dominazione locrese, Reggio fu duramente punita. Crotone invece riuscì in qualche modo a reggere la situazione, anche se la cosa non avvenne senza ulteriori conflitti. Solo da Giustino[8], la cui fonte sarebbe Timeo, sappiamo che Dionisio attaccò anche Crotone, ma fu sconfitto dovendo rinunciare al proposito di occuparla. Il fatto che quest'avvenimento sia riportato solo da Giustino, ha portato alcuni a considerare poco attendibile la notizia che, comunque, alla luce degli avvenimenti e delle nostre fonti d'informazione, sembra invece abbastanza verosimile.

 

Un problema di simpatie politiche.
Il racconto degli episodi relativi alle imprese di Dionisio di Siracusa, ci è noto attraverso gli scritti di Diodoro siculo (I secolo a.C.) che è autore di una storia universale in 40 libri che copre un lunghissimo periodo che va dalle origini fino alla conquista della Britannia da parte di Cesare (54 a.C.). Senza entrare nel merito di un'analisi sulla sua attendibilità, possiamo dire che non essendo contemporaneo ma posteriore di diversi secoli rispetto ai fatti che descrive, il valore storico della sua opera dipende molto dagli scritti di autori più antichi che egli ha utilizzato nella stesura del suo lavoro. Per quanto riguarda i fatti che stiamo esaminando, queste fonti sono: Timeo di Tauromenio (metà del IV - metà del III secolo a.C.), Eforo di Cuma eolica (vissuto circa tra il 405 e il 330 a.C.), e Filisto di Siracusa (430-356/5 a.C.). Da un punto di vista delle loro simpatie politiche, possiamo dire che Timeo può essere considerata una fonte ostile a Dionisio, data la sua riconosciuta avversione alla tirannide che tra l'altro lo portò ad abbandonare la Sicilia ed a recarsi in esilio ad Atene. Simpatizzante dell'assetto aristocratico dello stato e quindi vicino alle idee del precedente, può essere considerato Eforo. Molto diversa è invece l'impostazione di Filisto di Siracusa, che fu tra i protagonisti dell'ascesa al potere di Dionisio il vecchio ed al servizio del figlio Dionisio II. Da quanto detto è possibile rintracciare nel materiale usato da Didoro siculo due filoni diversi. Il primo, riferibile e Filisto, riporta una ricostruzione dei fatti che, se non abbiamo motivo di mettere in discussione nei loro epiloghi, evidenziano, comunque, una serie di risvolti tesi a magnificare l'opera di Dionisio. Ciò che ci proviene attraverso gli scritti di Timeo tradisce invece una decisa avversione per il tiranno. E' il caso della mancata conquista di Crotone, che Giustino (per quanto apprende da Timeo), presenta come una rivincita da parte dei Crotoniati della battaglia della Sagra, in considerazione dell'appoggio che Locri aveva dato a Dionisio, durante lo svolgimento delle operazioni che lo avevano visto protagonista in Italia. Anche in questo caso, l'epilogo dei fatti non sembra poter essere messo in discussione. In questo senso testimonia la vitalità delle città federate, in momenti appena successivi e lo stesso resoconto di Strabone[9], quando riferisce che il progetto di sbarramento dell'istmo da parte del tiranno fallì in virtù di un violento attacco dei Greci che vivevano a nord di questo confine. Anche in assenza di una esplicita identificazione, l'episodio può essere qualificato come una reazione vincente che vide sicuramente protagonisti i Crotoniati, dato che, in tale frangente, essi erano stati a capo degli oppositori di questo progetto. Ciò s'inquadra in una situazione che, seppure mantenga un forte carattere di instabilità, trova comunque una tregua, citata esplicitamente nel racconto di Diodoro Siculo che, da una parte vede la dissoluzione o forse solo il ridimensionamento della Lega, consentendo di abbattere la minaccia che essa rappresentava all'espansionismo siracusano, ma dall'altro blocca tale espansione senza che essa interessi il punto cruciale dell'istmo che era l'obiettivo finale programmato.

 

La seconda campagna di Dionisio in Italia.
Pochi anni dopo i fatti che abbiamo descritto, assistiamo al riaccendersi dei conflitti, che questa volta oltre a vedere il coinvolgimento dei Lucani, trovarono il concorso anche dei Cartaginesi che abitavano la Sicilia, i cui interessi erano in forte contrasto con quelli di Siracusa. I fatti presero l'avvio del conflitto che nel 382 a.C. Dionisio intraprese contro i Cartaginesi, che dette modo alle città federate di tentare di recuperare quanto era stato perduto in precedenza. In una prima fase la situazione sembrò volgere in loro favore, dato che, grazie all'aiuto dei Cartaginesi, fu ricostituita Hipponion, ma successivamente la stipula della pace tra Cartaginesi e Siracusani e l'entrata in gioco dei Lucani, determinò un recupero della situazione da parte di Dionisio, che nel 379 a.C. occupò Crotone[10], mentre i suoi alleati Lucani realizzarono la conquista di Petelia. Secondo Livio[11], i Siracusani riuscirono ad espugnare la città con l'inganno, scalando la ripida parete della rupe che difendeva l'acropoli dalla parte del mare, in un punto dove un attacco era del tutto inatteso. In quest'occasione Dionisio avrebbe consentito ai propri mercenari il saccheggio del tempio di Hera Lacinia[12], e la sua dominazione sulla città sarebbe durata 12 anni[13]. Ciò sembrerebbe comprovato da alcune emissioni in bronzo di questo periodo che, accanto al classico tripode, riportano il nome del tiranno siracusano[14]. La maniera con la quale la tradizione propone complessivamente quest'avvenimento, non lascia comunque dubbi sulla sua veridicità, anzi ci permette di mettere in evidenza una serie di risvolti particolarmente significativi per la città, che lasciano intravedere uno scenario complessivamente mutato. Le notizie che riferiscono dell'inganno perpetrato da Dionisio, il coinvolgimento di truppe mercenarie e le notizie dei saccheggi che ad esse vengono attribuite, rappresentano una serie di elementi che, oltre a testimoniare la prima e significativa violazione dello spazio urbano della città, dimostrano che seppure per un breve periodo, ciò impose ai Crotoniati, una dipendenza che non si era mai realizzata nel passato.

 

Le trasformazioni del IV secolo.
Gli episodi che riguardano il conflitto con Siracusa nel primo quarto del IV secolo, rappresentano per Crotone un momento fondamentale della sua storia. Lo scenario che è possibile recuperare, dimostra che questi avvenimenti, provocarono una serie di cambiamenti molto importanti nell'organizzazione della città. Ciò è rilevabile anche attraverso alcuni adeguamenti di tipo urbanistico, che testimoniano del suo momento di particolare prosperità economica, ma che allo stesso tempo, ed in maniera non contraddittoria, mettono in evidenza anche una crisi legata al superamento della sua dimensione cittadina. Gli avvenimenti, infatti, non solo misero Crotone e le altre città greche di fronte ad una serie di questioni che determinarono la formulazione di una nuova risposta politica, rappresentata dalla costituzione di un organismo di tipo federale come la Lega, ma determinarono anche cambiamenti profondi nella mentalità cittadina che li aveva animati durante le fasi precedenti. Si trattava oramai di far fronte a conflitti diversi da quelli che avevano opposto gli stati greci nel passato, rispetto ai quali, le notizie a riguardo di vere e proprie devastazioni, assumono un significato molto veritiero. Ci troviamo in un periodo nel quale i conflitti sono rappresentati da vere e proprie campagne, non più orientate ad eliminare la forza militare dell'avversario, ma indirizzate contro le stesse città che oramai si erano dilatate fino a divenire delle vere e proprie metropoli, ricche e densamente abitate. Da un punto di vista militare, ciò impose di passare da una difesa attiva, basata sul principio di muoversi con tutte le proprie forze incontro al nemico, ad un modello che contemplava anche il ricorso ad una difesa passiva. Le città si dotarono in questo periodo di possenti cinte murarie, capaci si sostenere un assedio. Questo cambiamento di strategia, non deve essere letto solo come un adeguamento d'ordine militare. Esso presuppose anche un cambio di mentalità, che seppure necessario, deve essere stato particolarmente sofferto. I Greci, infatti, non solo dovettero venire a patti tra loro in organismi federali, e legarsi attraverso alleanze necessarie, ma delle quali avrebbero fatto volentieri a meno se non fossero stati minacciati così seriamente, ma dovettero abbandonare per sempre quella che era stata una delle loro prerogative fondamentali. Si tratta del ben noto desiderio di affermare la propria sovranità e di reagire contro qualsiasi estraneo che calpestasse la loro terra, un'esigenza sentitissima anche solo verso soggetti neutrali, come abbiamo visto nel caso del transito degli Ateniesi che si recavano in Sicilia durante la guerra del Peloponneso. La difficoltà di accettare una diversa strategia di fronte alle nuove necessità è significativamente espressa dal fatto che (come si rileva negli avvenimenti che portarono alla conquista di Crotone da parte di Dionisio, ma anche in episodi successivi), rispetto al convenzionale scontro in campo aperto, la morale greca considererà sempre un inganno il ricorso ai sotterfugi dell'assedio. Ciò non tanto in virtù di una presa di posizione retorica, quanto in considerazione del fatto, che questo tipo di combattimento aveva permesso una sostanziale salvaguardia dei centri abitati, e poi perché la resistenza all'assedio si dimostrerà nei fatti sempre poco efficace, quando si escludeva la possibilità di ricevere rapidamente aiuti dall'esterno. A ciò si aggiunge che i Greci dovettero in parte anche rinunciare a difendersi autonomamente. L'allungamento delle campagne ed il miglioramento del tenore di vita, presupponevano l'utilizzazione di personale che si dedicasse completamente a tale scopo, cosa che non poteva certo fare il cittadino, se voleva ancora occuparsi dei fatti suoi e salvaguardare la propria incolumità. Ciò determinò il ricorso alle truppe mercenarie che, da una parte, dovevano essere pagate, gravando pesantemente sulle casse, mentre, dall'altra, acquisivano diritti che a volte costituivano una seria minaccia per le stesse città che avrebbero dovuto difendere. Coerentemente con la situazione illustrata, in questo periodo Crotone realizzò un grande progetto adeguato alle nuove esigenze militari e politiche che prevedeva un totale ripensamento del suo sistema difensivo e che portò la città a dotarsi di una cinta fortificata, per una protezione complessiva di tutta l'area urbana[15]. Si trattava di un'opera imponente che doveva proteggere una città che si estendeva su di una superficie molto vasta e sembra quindi verosimile la notizia fornitaci da Livio secondo cui essa sarebbe stata lunga 12 miglia romane (circa 18 chilometri)[16]. La tecnica di costruzione prevedeva il posizionamento a secco di blocchi di pietra che costituivano le due facce della murata, che era colmata internamente con un riempimento di pietre e terra. Questa cortina era poi intervallata da torri che aumentavano la difesa del perimetro e difendevano gli ingressi che, essendo i punti più vulnerabili, dovevano essere particolarmente muniti. La difesa di questa murata era aumentata dalla realizzazione di un fossato per impedire l'avvicinamento delle macchine d'assedio e doveva essere dotata di camminamenti che consentissero di effettuare sortite. La grandiosità di quest'opera deve comunque dare l'idea delle proporzioni oramai assunte dalla città, visto che per una realizzazione di questo tipo essa dovette impegnare ingenti risorse, con le quali retribuire la manodopera impegnata e reperire i materiali usati. L'immagine di Crotone che ci consegna questo periodo è quindi quella di una metropoli potente e popolata, ricca ed influente, ma che, allo stesso tempo, anche sforzandosi di adeguarsi alle nuove condizioni, si avviava ad essere superata dal corso della storia, secondo una parabola naturale che indurrà gli intellettuali greci a idealizzare la sua buona costituzione dei tempi passati. Si tratta di una realtà sociale fortemente ancorata all'economia monetaria ed allo scambio, nella quale si erano affermati i servizi (come quelli militari) e le attività dei cosiddetti mestieri artigianali, che permettono a molti di sfruttare le proprie capacità, ricevendo una retribuzione che consentiva loro di vivere senza terra. Ciò permetteva di acquistare da altri quanto serviva, contribuendo in questo modo ad alimentare un sistema economico che andava contrapponendosi sempre più drasticamente all'autarchia dei contadini. Anche questi ultimi, comunque, erano oramai molto diversi dalle figure che abbiamo descritto durante l'epoca arcaica. I soggetti legati all'agricoltura si erano progressivamente evoluti, annoverando tra quanti lavoravano direttamente un proprio fondo, altri che avevano accumulato abbastanza risorse da costituire proprietà sempre più vaste, occupandosi solo della organizzazione e della gestione dell'attività agricola e ricorrendo alla manodopera fornita dagli strati più miseri della città che affittavano le loro braccia in rapporto di salario. Se tale situazione aveva permesso un miglioramento delle condizioni generali di vita e di conseguenza un notevole incremento demografico, portando le città a dilatarsi enormemente, d'altra parte aveva alterato sensibilmente gli equilibri che avevano permesso la nascita ed avevano retto la società della polis.

 

Una ritrovata prosperità.
Siamo comunque ancora lontani dagli avvenimenti che porteranno al collasso il sistema cittadino greco, anzi possiamo dire che proprio questa fase, successiva alla morte di Dionisio il Vecchio (367 a.C.), rappresenta per Crotone ma anche per i principali stati greci d'occidente un momento di rinnovata stabilizzazione. Ciò avvenne attraverso un ritrovato equilibrio tra i principali protagonisti, tra i quali spicca Taranto che era già emersa durante la prima metà del IV secolo. Quest'ultima, a differenza di Crotone, poteva sfruttare una tradizione di favorevoli rapporti con Siracusa che risalivano già al tempo della spedizione ateniese in Sicilia e la cosa le permise di proporsi come nuovo punto di riferimento per i Greci della Penisola, che al pari di Crotone, erano reduci da una lunga serie di conflitti. Le tensioni vennero dunque stemperate attraverso la costituzione di un nuovo organismo federale che, in virtù del ritrovato assetto, si costituì ad Heraclea attorno al 366 a.C. sotto la guida dei Tarantini che conferirono ad Archita, che già governava la loro città, la carica di stratega della lega. La tradizione, riferendo della sua appartenenza ai Pitagorici e dell'amicizia verso Dionisio II di Siracusa, riassume bene i termini della nuova situazione. Questo nuovo organismo federale non aveva più nessun atteggiamento ostile verso Siracusa, mentre aveva l'intento di realizzare una valida opposizione alla minaccia dei Lucani, verso i quali gli stessi Siracusani realizzarono una decisa campagna militare. Nel quadro dei rinnovati rapporti di amicizia, Dionisio II non solo realizzò una spedizione contro i Lucani (366 - circa 361 a.C.), ma s'impegnò pure nella ricostituzione di Reggio e Caulonia, notizia che anche in assenza di una esplicita citazione, fa fondatamente ritenere che Crotone recuperò rapidamente la sua autonomia nel lasso di tempo che vide l'avvento di Dionisio II e la costituzione della lega. Il delicato equilibrio che legava le città federate con la loro capofila Taranto a Siracusa, non ebbe in ogni modo vita molto lunga. Nel 356 a.C., poco tempo dopo la morte di Archita (attorno al 360 a.C.), Dionisio II fu scacciato da Siracusa ad opera di Dione. Quest'ultimo venne sostenuto nella sua ascesa al potere da diversi Greci d'Italia, tra i quali, seppure non citati espressamente, non è difficile intravedere quanti, come i Crotoniati, avevano dovuto forzatamente accettare la leadership del personaggio, che trovò accoglienza a Locri. Sarebbe comunque errato ricomporre tale situazione evidenziando solo le figure di tiranni e di leader militari, perché alla costruzione di quest'effimero momento di stabilità, non sono estranei gli apporti che coinvolsero il meglio dell'intellighenzia greca. Non a caso negli anni che videro Archita e Dionisio II reggere le sorti dei greci d'occidente, si realizzarono due viaggi di Platone in Sicilia (366 e 361 a.C.), mentre lo stesso Platone[17] si attribuiva il merito di aver favorito l'amicizia tra i due personaggi, giudicandola "di non piccola importanza politica" al tempo del suo secondo viaggio (366 a.C.). Quest'ultimo era già stato in Sicilia nel 388 a.C. al tempo di Dionisio il Vecchio e a testimonianza di alchimie abbastanza chiare, si fermò lungo il suo viaggio anche a Taranto e a Locri, i perni attorno ai quali ruotava il sistema di alleanze fedele ai Siracusani. Sarebbe qui inutile soffermarsi sul pensiero del personaggio, ma in merito agli avvenimenti esposti e nel quadro del particolare momento vissuto dai Greci, vale la pena di recuperare almeno alcuni spezzoni del pensiero platonico, accanto ad altre importanti correnti di pensiero che hanno cercato di delineare un nuovo schema di società politica, in un momento in cui invece essa cominciava a disegnare la sua parabola discendente.

 

La proposta degli intellettuali per una nuova società cittadina.
Solo apparentemente può risultare strano che un personaggio come Archita, responsabile di una pur breve primavera delle città greche, sia accreditato di una esperienza pitagorica. Ciò potrebbe sembrare in conflitto con la sostanziale emarginazione della setta, e con l'effettivo anacronismo tra il Pitagorismo (quello legato al periodo di passaggio tra la fase arcaica e classica della polis) e l'esperienza autoritaria di Archita o Dionisio II, alle quali la tradizione lega l'azione di Platone. Le cose appaiono invece sotto una luce diversa, leggendo le vicende di questi personaggi all'interno del sostanziale filone di crisi che investe la polis in questo periodo, e che sembra trovare uno sbocco all'interno di un processo di rivalutazione di esperienze del passato. Tra esse il Pitagorismo aveva rappresentato certamente un sistema alternativo per sfuggire a forme demagogiche o comunque di allargamento troppo radicale della costituzione. Le elaborazioni del periodo avvengono, infatti, attraverso una rivisitazione del passato, che solo idealmente si riferisce o può essere ricondotta al Pitagorismo. In questo senso è facilmente rilevabile come in Platone (427 - 347 a.C.) sia molto profonda l'influenza pitagorica e l'impronta di matrice aristocratica o comunque elitaria della sua proposta politica. Essa, riferendosi al modello di Sparta, ipotizza che la guida della società sarebbe stata affidata ad una élite ristretta e selezionata, capace di mettere a frutto la conoscenza maturata dai filosofi e di realizzare una convivenza basata sull'osservanza delle leggi. L'influenza del pensiero pitagorico in Platone è in questo caso molto più marcata che in Socrate (470/469 - 399 a.C.) che seppure vive già in una società greca (quella ateniese) che attraversa i suoi travagli, a differenza del precedente non si trova nella profonda crisi di identità che investe la polis in questo periodo. Tale crisi, come è stato fatto notare, nasceva dalla difficoltà di adeguare la rigida dimensione politica della polis, allo sviluppo che aveva interessato la società greca durante la fase classica. Ciò determinerà da parte degli intellettuali del periodo, prese di posizione verso forme che prevedevano una cittadinanza più contenuta, teorizzando sistemi di matrice aristocratica, nei quali un ruolo importante è assegnato ad una classe media dedita all'agricoltura. In questo senso si consolida una crescente avversione verso gli artigiani ed i mercanti, che erano andati assumendo un ruolo sempre più importante e che erano stati i principali responsabili della dilatazione a dismisura delle città. Non a caso gli intellettuali del periodo si esprimeranno verso questi ultimi attraverso vere e proprie forme di denigrazione, esaltando, viceversa, le virtù degli uomini dediti all'agricoltura, come si rileva in Senofonte[18], in Platone[19] o in Aristotele[20]. Questi ultimi, nella sostanza, esprimevano una tradizione aristocratica che aveva come modello l'arcaismo di Sparta, richiamandosi, come nel caso di Platone, al Pitagorismo, dato che tale utopia, già efficacemente utilizzata, costituiva una valida base ideologica per la difesa delle prerogative di un'aristocrazia conservatrice.

[1] Tucid. VII, 35.
[2] La costituzione di questa lega sarebbe relativa all'anno 393 a.C. (Diod. XIV, 91), anche se la data non è ricavabile con sicurezza dal testo. D. Musti, Storia Greca, p. 570, Editori Laterza, 1992.
[3] P. Attianese, op. cit. p. 184-185.
[4] G. De Sensi Sestito, op. cit. p. 277-279.
[5] Diod. XIV, 100.
[6] Diod. XIV, 104. Per quanto riguarda il luogo e la data di quest'avvenimento, in Polibio (I, 6) si rileva che la battaglia sarebbe avvenuta attorno al 388 a.C., anche se lo storico non la fornisce direttamente, ma attraverso l'accostamento ad altri avvenimenti del periodo, la cui cronologia non si presenta del tutto concordante. Le considerazioni espresse sull'importanza della via istmica e le caratteristiche del toponimo poro, che in greco ha il significato di valico - passaggio, porterebbero, in questo caso, ad un'identificazione del fiume teatro dello scontro, pertinente alle immediate vicinanze dell'imbocco dell'istmo.
[7] Strab. VI 1, 10.
[8] Giust. XX 5, 4.
[9] Strab. VI 1, 10.
[10] La data di quest'avvenimento non è riferita esplicitamente, ma viene ricavata indirettamente in base alla notizia che l'occupazione siracusana sarebbe durata 12 anni (Dion. di Alic. XX, 7) e che si sarebbe verosimilmente conclusa alla morte del tiranno (367 a.C.).
[11] Livio XXIV, 3, 8.
[12] Ps. Arist., De Mir. Ausc., 96.
[13] Dion. di Alic. XX, 7, 3.
[14] P. Attianese, op. cit. p. 190.
[15] Tito Livio (XXIV, 3) riferisce che l'acropoli fu munita di mura dopo l'occupazione di Dionisio nel 379 a.C..
[16] Livio XXIV, 3.
[17] Plat., Ep. VIII, 339 A.
[18] Senof. Eco. 4, 2-3.
[19] Plat., Gorgia 512 c..
[20] Arist., Pol. V, 2, 1-2.


capitolo nono

Il crepuscolo degli dei.
Questo periodo, che prelude per i Greci alla definitiva perdita della loro autonomia politica, evidenzia tutta l'inadeguatezza con i tempi del modello cittadino e della mentalità che lo aveva realizzato. Le città impossibilitate a sfuggire alla loro rigida dimensione politica, anche sforzandosi di realizzare convergenze, attraverso tentativi di sposare cause comuni, rimasero in definitiva quello che erano. Ciò fece si che di fronte al mutare dei tempi, i Greci non riuscissero a trovare una risposta che avrebbe consentito loro di superare la crisi, venendo progressivamente superati dall'avvento di nuove realtà che si erano strutturate su scala diversa e che, come Roma, caratterizzeranno la storia successiva dell'Italia antica. Tale valutazione non deve essere letta come il tentativo di evidenziare difetti e limiti della società greca in rapporto ad altre. Senza perderci nei rimpianti che spesso ancora oggi accompagnano questa pagina di storia, possiamo dire, semplicemente, che essa evidenzia la naturale conclusione di un'esperienza forte, ma allo stesso tempo difficilmente modificabile, che ad un certo punto fece posto ad altre. Tale conclusione non si realizzò però né in modo repentino né in virtù di una sola causa, anche se alcune generalizzazioni possono accreditare una ricostruzione degli avvenimenti, che solo apparentemente fornisce un'accettabile realtà storica. Quella di questo periodo evidenzia una fase di crisi, che non riguarda il livello di benessere dei Greci - le città continuano a vivere la loro opulenza - ma essenzialmente la difficoltà crescente degli stati greci di reggere il confronto con realtà sovra cittadine che, in questo periodo, caratterizzano più compiutamente la società dei barbari che premeva ai confini dell'ordinato mondo ellenico. Per quanto riguarda le aree nelle quali si estendeva l'influenza dei Crotoniati, nuovi avvenimenti portarono ad una riqualificazione di una serie di zone interne, nelle quali si realizzò la costituzione di una nuova entità politica, rappresentata dalla confederazione dei Bruzi (356 a.C.) che proclamarono loro capitale Cosenza. L'avvenimento viene riportato come un'evoluzione repentina dell'assetto complessivo di questo territorio, che avrebbe visto i Bruzi rendersi autonomi dai Lucani, alle vicende dei quali erano stati legati fino a quel momento. Secondo la tradizione, i Bruzi sarebbero stati, infatti, gli schiavi pastori di questi ultimi. A prescindere dalla effettiva storicità di quest'informazione e delle vere origini dei Bruzi è certo, comunque, che da qui in avanti essi assunsero nell'area in questione una piena sovranità, spodestandone i Greci e diventando per loro una costante minaccia. Ciò ebbe particolari conseguenze per Crotone, che sarà ricorrentemente impegnata a fronteggiare la loro intraprendenza. Già negli anni immediatamente successivi alla loro costituzione federale, i Bruzi conquistarono Terina (354 a.C.), impossessandosi di quello che era stato, fino a quel momento, un nodo cruciale per l'economia della città

 

La campagna di Alessandro il Molosso.
Nel quadro di una situazione che andava radicalmente evolvendosi a scapito dei Greci, l'azione pressante dei barbari contro le città greche trovò nuovo slancio a seguito della crisi di Siracusa conseguente alla caduta di Dionisio II (356 a.C.), portando Taranto ad assumere il ruolo di guida per le città minacciate. Ma oramai esse erano incapaci di allestire isolatamente una valida difesa e cercarono di ribaltare una situazione che le vedeva chiaramente in difficoltà, facendo ricorso ad eserciti di mercenari. Il loro ingresso sulla scena non servì però a migliorare di molto la situazione, perché questi ultimi finirono spesso per creare contrasti con le stesse città che li avevano assoldati. Furono i Tarantini, che dopo aver chiesto nel 342 a.C. l'aiuto di Archidamo di Sparta, si rivolsero ad Alessandro Neottolemo (detto il Molosso), re d'Epiro, che giunse con il suo esercito in Italia nel 333 a.C.. Alessandro ottenne una serie di successi sia politici sia militari nei confronti dei Barbari, cosa che a questo punto determinò la defezione di Taranto che, sentendosi minacciata dal potere che il re epirota stava accumulando, lo abbandonò. Fu probabilmente proprio a seguito di questa defezione che Crotone andò assumendo un ruolo più di primo piano negli avvenimenti. Ciò si rileva dal fatto che l'epilogo della spedizione di Alessandro è ambientata in un'area prossima a Crotone o, comunque, dove fino ad un recente passato erano stati radicati diversi suoi importanti interessi, e come sembra dimostrare il ritrovamento nella città di un numeroso quantitativo di monete di bronzo (oltre 4000), rinvenute tutte contestualmente assieme ai punzoni utilizzati per coniarle[1]. Tali monete recano il nome di Alessandro Neottolemo e rappresentano, con ogni probabilità, la paga dei mercenari del condottiero epirota[2]. Le sue vicende, che conosciamo attraverso i racconti di Tito Livio[3], Strabone[4] e Giustino[5], ci permettono di evidenziare un consistente arretramento delle posizioni tenute dai Greci in conseguenza dell'affermazione dei Bruzi. Secondo questa tradizione, Alessandro prima di recarsi in Italia andò a Dodona a consultare l'oracolo di Zeus, per conoscere cosa gli riservasse il futuro. L'oracolo lo avrebbe però ammonito di guardarsi "dall'Acheronte e da Pandosia", ma Alessandro non avrebbe tratto da ciò auspici negativi, dato che pensava che l'oracolo si riferisse ai luoghi della sua patria (l'Epiro). Non sapeva, invece, che anche in Italia vi erano un fiume ed una città con questi nomi. Un altro oracolo contribuì poi a metterlo sulla strada sbagliata: "O Pandosia dai tre colli, ci sarà un giorno in cui distruggerai una forte e numerosa gente", inducendolo a credere che il responso alludesse alla distruzione dei suoi nemici. Il suo destino si compì implacabilmente durante la battaglia sul fiume Acheronte presso Pandosia (331 a.C.). Qui, durante lo scontro, Alessandro avrebbe ucciso il comandante dei Lucani, ma mentre si accingeva ad attraversare il fiume con i suoi, fu colpito da un giavellotto e sopraffatto dai nemici. A questo punto i barbari ribaltarono la situazione e sconfissero i Greci rimasti senza il loro generale, il cui cadavere, diviso in due, fu parte inviato trionfalmente a Cosenza e parte fu lasciato al dileggio sul campo di battaglia. Una donna, a questo punto, sarebbe intervenuta chiedendo il corpo del re per scambiarlo con la vita dei propri figli prigionieri in Epiro. I resti del re, riscattati dai Metapontini, o secondo un'altra versione da quelli di Thurii, furono quindi inviati in Epiro. La proposizione di questi avvenimenti, attraverso la dettagliata tradizione che li accompagna, ha una notevole importanza per ricostruire le vicende che opposero i Greci ed i Barbari durante questo periodo, ed in particolare ci offre l'opportunità di evidenziare una piena affermazione dei Bruzi nell'area, situazione che dimostra di trovare anche il pieno riconoscimento da parte dei Greci. Come si rileva, l'epilogo della tradizione, attraverso una serie di simbolismi, sottolinea il pieno riconoscimento di Cosenza (qui furono portati e cremati i resti di Alessandro) come capitale della confederazione dei Bruzi, la cui legittimazione rimane evidente dall'accordo (la cessazione del dileggio, il pagamento del riscatto e lo scambio con i prigionieri) che attraverso il ritorno in patria delle spoglie del re, mette fine alla spedizione di Alessandro e al tentativo greco di reimporsi militarmente nell'area. Seppure l'episodio evidenzi una dura sconfitta dei Greci, la tradizione si dimostra indulgente verso la figura del re epirota, come dimostra la pietà che pervade l'epilogo della sua vicenda e soprattutto l'eroismo che gli è attribuito. Egli infatti, seppure non possa opporsi ad un volere divino (rivelatosi enigmaticamente attraverso l'oracolo), dimostra tutto il suo valore di condottiero. E' solo durante l'inseguimento del nemico in ritirata che la sorte avrebbe determinato la sconfitta dei Greci, quando Alessandro è ucciso in maniera fortuita (da un giavellotto) senza che ciò infici le sue qualità militari, dato che la morale greca reputava fondamentalmente una vigliaccheria colpire il nemico da lontano con armi da lancio. Tale voluta benevolenza non è comunque da attribuire ad una serie di trovate letterarie, ma s'inquadra nell'episodio cruciale del periodo, che vede i Bruzi pienamente affermati nell'area e nuovi interlocutori politici dei Greci. Attraverso la maniera con la quale ci sono presentate le vicende, si rileva quindi che si giunse ad una mediazione, che seppure subita dai Greci, dimostra di essere stata accettata pienamente attraverso un accordo, forse con l'intento di realizzare un freno all'espansionismo dilagante dei barbari.

 

L'intervento di altri mercenari e le conseguenze interne.
I fatti che seguirono dimostrano invece che i probabili intenti dei Greci non trovarono buon fine, perché a seguito del fallimento della campagna di Alessandro, l'insidia verso le città si fece ancora più incombente. Crotone minacciata dai Bruzi, dovette ricorrere all'aiuto di Siracusa[6] che nel 325 a.C. inviò in suo soccorso un esercito al comando di Eraclide e Sosistrato (o Sostrato) e del quale facevano parte anche Agatocle ed il fratello Antandro. In questo modo, i Bruzi che assediavano Crotone furono respinti e la campagna condotta vittoriosamente, dette modo a Sosistrato di rientrare a Siracusa e di prendere il potere. Agatocle, invece, che aveva tentato di avversarlo, rimase in Italia cercando di occupare Crotone, ma fu sconfitto e costretto a riparare a Taranto con i pochi uomini rimastigli[7]. Lo stato di conflitto determinò, a questo punto, una serie di contraccolpi interni per Crotone, le cui vicende possono essere ricostruite, schematicamente, attraverso la contrapposizione tra una cittadinanza aristocratica al potere (quest'ultimo messo in grave crisi dall'attacco dei Bruzi) e una fazione popolare che, successivamente, riuscirà a stabilire nella città un regime democratico, con una serie di legami che vedranno coinvolti Agatocle e gli stessi Bruzi. Sempre Diodoro siculo[8] ci informa che durante il nono anno dello svolgimento della II guerra sannitica combattuta dai Romani (326 - 304 a.C.) e quindi nel 317 a.C., Crotone stipulò un trattato di pace con i Bruzi, ma era già impegnata nel secondo anno di una guerra civile che la vedeva opposta ad una fazione di cittadini aristocratici esiliati dal regime democratico, che nel frattempo era stato instaurato nella città. Diodoro siculo chiarisce che questi cittadini erano stati allontanati per aver fatto causa comune con Sosistrato ed Eraclide, i comandanti siracusani che in precedenza erano intervenuti a favore della città attaccata dai Bruzi, con un chiaro riferimento alla presa di potere che Sosistrato aveva realizzato in patria ed all'opportunità dello stesso tipo che alcuni Crotoniati avrebbero voluto sfruttare con l'aiuto dei Siracusani. Il tentativo fu però duramente stroncato, perché dopo un primo episodio, che vide gli esuli partiti da Thuri, con l'appoggio di un contingente di mercenari, attaccare la città senza successo, l'esercito crotoniate guidato da Parone e Menedemo, raggiunse questi ultimi al confine della terra dei Bruzi e li sterminò completamente. In relazione a questi fatti, l'episodio potrebbe essere considerato in relazione alla svolta autoritaria che portò Menedemo ad assumere la tirannide a Crotone ed a stabilire una significativa amicizia con Agatocle. Seppure non esistano indicazioni esplicite sul momento e sulle condizioni che determinarono l'ascesa al potere di Menedemo è pensabile che la vittoria che lo aveva visto tra i principali protagonisti, abbia contribuito a dare maggiore spazio al personaggio, consentendogli, attraverso l'eliminazione degli avversari e giovandosi della recente pacificazione con i Bruzi, di consolidare e radicalizzare il proprio potere. Si tratta comunque, di un periodo molto travagliato e caratterizzato da una forte instabilità che, per quanto riguarda Crotone, evidenzia ormai una piena accettazione della presenza dei Bruzi sui suoi confini (qui emblematicamente i Crotoniati risolsero militarmente i loro dissidi interni), tenuta a freno attraverso il raggiungimento di un accordo. Tale situazione di tensione non esclude poi i principali vicini greci, come si rileva dal coinvolgimento di Siracusa, Taranto e Thuri negli avvenimenti. Si tratta però di una situazione in rapida evoluzione e non sorprende il trovarci di fronte a veloci e repentini cambi di campo. Emblematico è il caso di Agatocle che, intervenuto per difendere la città dai Bruzi, avrebbe successivamente cercato di impossessarsene senza riuscirvi, quindi richiamato sempre a combattere i Bruzi, avrebbe approfittato della situazione e della sua amicizia con Menedemo per attaccare la città e conquistarla con l'inganno. Senza scendere nell'effettiva storicità dei singoli episodi che la tradizione riferisce a quest'avvenimento, tutto dimostra lo stato di tensione e di incertezza generalizzato che ruota attorno alla presenza dei Bruzi e alla loro azione disgregatrice nei confronti di quella che era stata una realtà ad esclusivo appannaggio dei Greci. Questa minaccia sempre più pressante determinò la richiesta di aiuto di Taranto a Sparta che nel 303 a. C. portò in Italia Cleonimo che mise insieme un grosso esercito di mercenari al quale si unirono i Messapi ed i contingenti di varie città. La sua spedizione non ottenne però i risultati sperati, anzi vide Cleonimo impegnato in una serie di azioni legate al perseguimento di fini personali che, in combutta con i Lucani, lo avrebbe portato, tra l'altro, a taglieggiare Metaponto. Ciò determinò un sostanziale fallimento della sua impresa, portando i Greci a rivolgere altrove le proprie richieste di servigi militari. Fu quindi il turno di Agatocle di Siracusa (299-298 a.C.) che non agì meglio dei suoi predecessori e condusse una politica utilitaristica ai danni degli altri Greci. Seppure egli si sia impegnato militarmente contro i barbari, allo stesso tempo ne approfittò per realizzare i propri scopi in maniera spregiudicata, come nel caso dell'episodio che nel 295 a.C. lo portò alla conquista di Crotone[9]. Con la scusa di sostare con la propria flotta nel porto della città, mentre scortava la figlia Lanassa che si recava in Epiro per sposare Pirro, Agatocle avrebbe approfittato della concessione dei Crotoniati per assalire la città con l'inganno, saccheggiandola e facendo strage dei suoi abitanti. Installato un presidio nella sua acropoli, il condottiero siracusano avrebbe posto la città sotto il proprio dominio. Non abbiamo motivi per mettere in dubbio l'attendibilità della notizia, anche se, come al solito, questa deve essere depurata dalla ricostruzione letteraria. Essa, nella sostanza, censura Agatocle per aver rivolto le armi contro quelli della sua razza, in un momento che, secondo retorica, avrebbe dovuto vedere i Greci comunemente schierati contro la barbarie. Nella realtà Agatocle stava conducendo un personale ma legittimo obiettivo, che comunque non arrivò mai ad essere realizzato compiutamente, in considerazione del fatto che egli morì poco tempo dopo (289 a.C.). Ciò fa presumere che la dipendenza verso Agatocle, fu per Crotone un episodio transitorio, come del resto testimonia il caso di Hipponion che, presa dal condottiero siracusano l'anno dopo Crotone, si liberò immediatamente.

 

L'intervento di Roma e la campagna in Italia di Pirro.
La necessità di allestire una difesa efficiente e la difficoltà di gestire l'intervento di eserciti di mestiere, determinarono a questo punto la decisione, abbastanza generalizzata tra i Greci, di ricorrere all'aiuto militare dei Romani. La prima fu Thurii nel 282 a.C., che trovandosi sotto la minaccia congiunta dei Lucani e dei Bruzi, si rivolse a Roma. Quest'ultima inviò in suo soccorso un esercito al comando del console C. Fabrizio Luscino, che sconfisse i barbari e liberò la città dall'assedio. Sull'esempio di Thurii anche Locri accettò la presenza di un presidio romano, mentre a Reggio si istallava la VIII^ legione (legio campana). Anche Crotone si sarebbe adeguata a questa nuova situazione, accogliendo (probabilmente sempre attorno al 282 a.C.) un presidio, e venendo annoverata tra i soci di Roma. La notizia non è riportata esplicitamente, ma la s'ipotizza dal contesto generale che, in questo periodo, vede i Greci ricorrere in maniera generalizzata al protettorato dei Romani. In questa direzione potrebbe poi essere interpretata la notizia che riferisce l'intervento ritorsivo di Roma contro la città che si era ribellata passando dalla parte di Pirro. Da questo momento inizia comunque una nuova fase. Essa appare storicamente ben delineata nelle sue linee essenziali, ma lascia ampi margini in relazione alla possibilità di ricostruire i singoli episodi, come tradisce la maniera con la quale essi sono motivati. La pertinenza di questa tradizione al momento che vede l'estendersi della potenza romana sulla realtà delle colonie, rende comprensibile questa presa di posizione complessiva che, in ogni caso, tenne conto di chi risultò tra i vinti e di chi invece affermò il proprio ruolo di vincitore. La diversa realtà delle singole città, i loro differenti interessi e la loro differente capacità politica e militare, giocarono in maniera determinante nell'influenzare il comportamento dei Greci nei confronti degli avvenimenti. Taranto, ad esempio, in virtù della sua influenza e dei suoi interessi, scelse o fu costretta a scegliere una presa di posizione antagonistica verso Roma, innescando un conflitto che coinvolse anche le altre colonie. Già nel 303 a.C. Taranto era venuta a patti con gli interessi di Roma, stipulando un trattato che impediva alla flotta di quest'ultima il superamento del capo Lacinio. Ma in conseguenza di fatti successivi gli avvenimenti precipitarono. Il conflitto sarebbe stato provocato dai Romani, che violando il trattato, si erano presentati con la propria flotta nelle acque di Taranto, innescando la reazione di quest'ultima, che attaccò e distrusse il presidio romano a guardia di Thurii. Successivamente i Tarantini ebbero però la peggio, ma non rinunciarono a combattere e chiamarono a loro sostegno Pirro re d'Epiro. Pirro sbarcò nel 280 a.C. e dopo aver sconfitto i romani ad Eraclea e l'anno dopo presso Ascoli, tentò una trattativa che Roma rifiutò, anche perché nel frattempo quest'ultima si era accordata con Cartagine al fine di non concludere alcuna pace separata con il condottiero. Da parte loro i Greci, incoraggiati dalle iniziali vittorie di Pirro, colsero l'occasione per insorgere contro i Romani cercando di sottrarsi al loro protettorato. Anche i Crotoniati si affrettarono a cambiare campo, e seppure la cosa non sia riferita esplicitamente, si sarebbero sbarazzati del presidio romano passando dalla parte del re epirota (280 - 279 a.C.). A questo punto Pirro si diresse in aiuto dei Greci di Sicilia, conducendo una campagna vittoriosa (278 - 276 a. C.) contro Mamertini e Cartaginesi, che avrebbe dato modo ai Romani di sfruttare la sua assenza per lanciare un'offensiva in Italia che avrebbe portato il console P. Cornelio Rufino alla conquista di Crotone. In un'azione tesa a riconquistare le città ribelli e su richiesta di una parte della cittadinanza, egli si portò contro Crotone, ignaro del fatto che i difensori avessero rafforzato le difese della città con l'aiuto degli Epiroti. Ciò determinò il fallimento del primo assalto e di conseguenza il fatto che la città fu posta sotto assedio. Secondo il solito canovaccio, la sua caduta si sarebbe realizzata ancora una volta attraverso l'inganno, in virtù di uno stratagemma del console che, fingendo di ritirarsi dall'assedio, avrebbe indotto i difensori a smobilitare le difese, riuscendo così a penetrare facilmente nella città[10]. Le comprensibili incertezze che sono alimentate da questo tipo di racconto, non escludono, comunque, un quadro complessivamente veritiero che, in virtù della posizione assunta da Crotone a fianco di Pirro, vide la città subire una serie di attacchi contro il suo perimetro urbano. Ciò è evidenziato anche dalla notizia che in questo frangente essa, come Reggio, sarebbe rimasta vittima delle scorrerie dei Campani ammutinati della VIII^ legione, ai quali viene attribuita la conquista a tradimento di Crotone e il massacro del suo presidio romano[11]. Con il chiaro intento di spostare le responsabilità, la tradizione fornisce una versione dei fatti che non nega la devastazione della città da parte dei Romani, anche se Zonara ne attribuisce le colpe ai legionari ammutinati. Nel quadro di una situazione che evolveva rapidamente in favore di Roma, e nonostante Pirro al suo rientro abbia segnato qualche punto (Locri è riconquistata nel 276 a.C.), i suoi tentativi ebbero fine in conseguenza della sconfitta patita a Benevento nel 275 a.C., che lo portò prima a ripiegare su Taranto e poi ad imbarcarsi per rientrare in Epiro, lasciando Roma padrona assoluta della situazione. Crotone, ritornata stabilmente nelle mani dei Romani, come avvenne in altri casi, fu riannoverata tra le città socie di Roma, cosa che le permetteva di conservare l'autonomia politica (naturalmente attraverso il placet romano) e forse di continuare a coniare moneta propria[12], ma con una serie di obblighi che probabilmente riguardavano forniture e lo schieramento di contingenti navali. Nella sua veste di protettrice delle città greche, nel 270 a.C. Roma inflisse una punizione esemplare ai Campani della VIII^ legione giustiziandoli in massa.

 

L'ultimo sussulto.
Lo stato continuo di conflitto cui Crotone dovette far fronte durante la campagna di Pirro in Italia, ebbe notevoli ripercussioni per la città. Ai danni materiali, dovuti agli assedi e alle devastazioni subite, si sommarono quelli derivanti dal ridimensionamento del proprio ruolo, segnando il punto di una situazione di crisi oramai irreversibile, dalla quale la città non avrà più la forza di riprendersi. Tale situazione evidenziata secondo Livio dall'abbandono definitivo di parte dell'abitato[13], ebbe però una serie di rivolgimenti in conseguenza del conflitto che oppose Roma a Cartagine, coinvolgendo anche i Greci che, nel ruolo di città socie dei Romani, fornirono loro aiuti durante lo svolgimento della prima guerra punica (264 a.C. - 241 a.C.). L'atteggiamento dei Greci cambiò invece durante la seconda guerra punica (218 a.C. - 201 a.C.), che a seguito della famosa traversata delle Alpi portò in Italia Annibale. Ciò alimentò notevoli speranze tra i Greci, specie dopo la terribile sconfitta di questi ultimi a Canne (216 a.C.) e seppure alcune città rimanessero fedeli ai Romani, diverse altre, tra cui Crotone[14], si affrettarono a cambiare campo. Ciò non avvenne senza tensioni interne. Mentre le classi aristocratiche al potere avevano tutto l'interesse a difendere l'alleanza con Roma, le fazioni popolari si posero al fianco del condottiero cartaginese, intravedendo l'occasione come una possibilità di ribaltare tale posizione di potere garantita dai Romani. Al risveglio dei sentimenti di rivolta, non furono poi estranee le popolazioni barbare che avevano dovuto scontare la loro opposizione ai Romani, attraverso un drastico ridimensionamento del loro ruolo politico. Tra essi i Bruzi che, nella speranza di riguadagnare posizioni, si allearono con Annibale, diventando uno tra i suoi partners più fedeli e potenti. Crotone fu particolarmente coinvolta nel conflitto, divenendo teatro di diversi episodi ad esso legati[15]. Alla presenza di Annibale nel territorio della città si sommò quella dei suoi alleati Bruzi, che avevano il chiaro intento di sfruttare il momento per realizzare i propri obiettivi. Considerata l'impossibilità di saccheggiare Reggio e Locri, essi rivolsero le loro mire su Crotone che da una parte si sarebbe trovata quasi indifesa, essendo popolata da meno di 2000 cittadini[16] e dall'altra avrebbe allettato i Bruzi per la sua favorevole posizione marittima[17]. Questi ultimi, forti di 15.000 uomini, si diressero sulla città stringendola d'assedio e mandarono dei messi ad Annibale chiedendogli assicurazioni sul fatto che, una volta presa, essa sarebbe rimasta nelle loro mani[18]. Il condottiero evitò però di assumere impegni precisi, rimandando ogni decisione al suo generale Annone che si trovava sul campo, ma anch'egli non avrebbe offerto ai Bruzi alcuna garanzia. A Crotone, intanto, gli aristocratici, decisi a rimanere fedeli ai Romani, erano per resistere, mentre i popolari, favorevoli ad Annibale, mandarono un proprio emissario al campo dei Bruzi con la notizia che il loro capo, Aristomaco, era disposto a trattare una resa. Agevolati da questo sfaldamento interno e dalle poche difese, i Bruzi riuscirono a prendere la città al primo assalto, mentre gli aristocratici si rifugiarono nell'acropoli decisi a resistere ad oltranza, dato che non avrebbero mai accettato di mischiare il proprio sangue a quello dei barbari. A questo punto, la situazione di stallo fu risolta attraverso una negoziazione mediata dai Locresi che, con il consenso di Annibale, permise agli aristocratici di abbandonare incolumi la città e di recarsi esuli a Locri, lasciando nel 214 a.C. la città nelle mani dei Bruzi e dei Cartaginesi. Questi ultimi espugnarono anche Petelia che si sarebbe arresa al generale di Annibale, Imilcone, solo dopo una lunga e leggendaria resistenza[19]. Assieme a Cosenza, Petelia sarebbe stata, infatti, la sola città dei Bruzi a rimanere dalla parte di Roma, continuando a mantenere fede ai patti anche quando il senato romano si era dichiarato nell'impossibilità di fargli giungere aiuti[20]. L'eroismo che avrebbe contraddistinto la condotta di Petelia, sembra in ogni caso creato ad arte dallo storico e sembrerebbe più che altro giustificare lo sviluppo di questo centro favorito dai Romani, in un'area che stabiliva dei precisi limiti ai confini territoriali di Crotone. La maniera con la quale Livio propone questi avvenimenti, dimostrano, infatti, di poter essere ricondotti ad una realtà che è oramai in chiaro subordine e che è presentata, mettendo in evidenza la mancanza di un progetto politico alternativo e possibile a quello romano. Ne è testimonianza le diversità di vedute sulla sorte della città che avrebbero caratterizzato Annibale ed i suoi alleati, l'atteggiamento speculativo dei Cartaginesi, che si sarebbero serviti dei Bruzi per assumere nei confronti dei Crotoniati, la veste di arbitri della situazione e l'incapacità di questi ultimi con le loro insanabili divisioni interne, di rappresentare interlocutori credibili. Ciò con il chiaro intento di fornire una rappresentazione del ruolo che da qui in avanti, i nuovi dominatori avrebbero assunto nei confronti della città e che li avrebbe visti stabilizzare definitivamente la situazione, garantendone il mantenimento. Tale situazione ha comunque una sua precisa rappresentazione attraverso alcuni riferimenti pertinenti al ruolo di Hera, che ritroviamo anche nell'ultimo degli episodi che coinvolgono la vita della città greca. Anche in quest'occasione, le trasformazioni territoriali conseguenti al passaggio di Annibale, sono rappresentate attraverso un coinvolgimento del santuario di Hera al capo Lacinio. Qui Annibale si sarebbe reso autore di alcune violazioni delle prerogative politiche e religiose del santuario che, da un lato sottintendono la sua empietà, mentre dall'altro riferiscono della piena affermazione del mondo romano nell'area. Annibale, infatti, avrebbe tentato di appropriarsi dell'oro consacrato alla divinità, ma gli ammonimenti che Hera gli fece in sogno, avrebbero consigliato al condottiero cartaginese di rinunciare ai propri propositi. Con l'oro che aveva fatto prelevare da una delle colonne del tempio, egli avrebbe realizzato una giovenca, poi donata al santuario come atto di riparazione al suo gesto sacrilego[21]. L'episodio, come è evidente, sottolinea una presa di distanza dalla condotta di Annibale che, seppure presentata attraverso una supposta violazione sacra, sottintende una netta riprovazione verso tutta la sua iniziativa politica. Gli avvenimenti, non a caso, sono ambientati sul sacro suolo di Hera, dato che il ruolo di questa divinità rappresenta la chiave di lettura che ribadisce la sovranità della città sul suo territorio. Le vicende, come é noto, portarono ad un progressivo arretramento delle posizioni tenute da Annibale, fino al fallimento della sua spedizione in Italia. Tale arretramento determinò un sempre maggiore coinvolgimento della città, dato che, già dopo la sconfitta di Asdrubale a Metauro, (207 a.C.) Annibale fece del Bruzio il suo campo trincerato, abbandonando le posizioni meno difendibili e concentrando le proprie forze nei punti strategici, come quello del medio Ionio facente capo al golfo di Squillace[22], dove forse sperava di ricevere aiuti che comunque non arriveranno mai. Di questo sistema il caposaldo divenne Crotone, che Annibale rinforzò facendovi affluire 3500 Thurini[23] e dove pose i magazzini di provviste ed il suo quartiere generale[24]. Qui nel 204 a.C., egli radunò il suo esercito sconfitto nei dintorni della città da P. Sempronio[25] e sempre presso Crotone[26] si sarebbe svolto un ultimo scontro campale tra il console Gneo Servilio ed Annibale, che comunque nel 203 a.C. salpò dal porto della città per fare ritorno in Africa[27]. Nel solco di una tradizione ostile, in tale occasione Annibale avrebbe fatto trucidare, presso il santuario di Hera, alcuni contingenti di soldati alleati che si erano rifiutati di seguirlo in Africa[28], ed avrebbe fatto riporre nel tempio delle tavole di bronzo, sulle quali erano riportate, in punico ed in greco, le imprese compiute durante la sua campagna militare[29]. Tali atti (la crudeltà verso gli alleati e l'arroganza legata ad un'auto consacrazione), evidenziano una netta presa di distanza della tradizione che accompagna la definitiva uscita di scena di Annibale. La sua sconfitta ristabilì il potere romano, che nonostante abbia concesso alle città greche di vivere una pace garantita, sancì comunque la fine dell'esperienza politica legata alla loro dimensione di stati cittadini.


Da città greca a colonia romana.
La partenza di Annibale e la definitiva stabilizzazione della situazione sotto il controllo romano, ebbero per i Crotoniati conseguenze molto diverse da quelle che gli erano state imposte nel primo trentennio del III secolo quando, dopo la sconfitta e la partenza di Pirro, Crotone aveva mantenuto una formale autonomia conferitale dal ruolo di città socia. In questo caso, anche se Livio riferisce che la città era ancora tenuta dai Greci ed a differenza di Temesa (dove i Greci erano stati scacciati dai Bruzi), mantenesse ancora la sua antica identità etnica[30], essa si presentava ormai molto devastata, fortemente spopolata e comunque complessivamente ridimensionata. Tale rappresentazione viene ritenuta in genere abbastanza verosimile, anche se esistono motivazioni che inducono a credere che gli storici antichi ci forniscono un'illustrazione dei fatti che è poco credibile dal punto di vista dello svolgersi dei singoli episodi. Tali ricostruzioni tradiscono l'intento di motivare adeguatamente le conseguenze. Secondo questo tipo di racconto, appare quindi inevitabile che la città spopolata e divisa al suo interno, risulti incapace di difendersi ed auto determinarsi e debba alla fine accettare di perdere la propria indipendenza, scendendo al rango di colonia romana. Non è un caso che nei passi in questione, molta importanza sia addebitata al ruolo dell'acropoli, che seppure più volte violata, in questo caso sarebbe divenuta inespugnabile per i Bruzi, visto che solo una trattativa avrebbe consentito la sua resa. Simbolicamente, l'acropoli rappresenta il luogo che, attraverso un ultimo ed estremo tentativo, avrebbe visto la fine eroica della città greca, mentre più verosimilmente individua quella che sarà in seguito la residenza della colonia latina che prenderà il pieno possesso ed il controllo della città. Nella logica della narrazione, la stirpe dei Crotoniati si sarebbe implicitamente estinta nell'esilio, anche se in questo caso lo stesso Livio si contraddice, quando riferisce che al momento della deduzione della colonia, la città era ancora abitata dai Greci. La ragione di tale rappresentazione è dovuta al fatto che l'estensione del potere romano portò ad un radicale mutamento di quella che era stata la struttura della città, a cominciare dalla sua identità etnica. Tale integrità che sarebbe stata messa in pericolo dai Bruzi, spingendo i Crotoniati a scegliere come alternativa l'esilio, fu invece lacerata proprio dai Romani, la cui presenza nella città comportò il passaggio dell'elemento greco in una posizione di chiaro subordine. In questo caso l'arrivo dei coloni latini è adeguatamente motivato e presentato come il naturale sbocco di una situazione che vedeva la città spopolata nella condizione di subire le legittime ritorsioni in virtù dell'appoggio dato ai Cartaginesi. Pochi anni dopo la conclusione della campagna di Annibale in Italia, Roma infatti inviò a Crotone una colonia di 300 cittadini romani[31] guidata dai triunviri Gneo Ottavio, Lucio Emilio Paolo e Gaio Letorio (194 a.C.), che andarono ad occupare due punti strategici della città funzionali al controllo del traffico marittimo: l'area fortificata dell'acropoli e quella del santuario di capo Lacinio. Tale situazione consente di evidenziare che almeno per un certo tempo gli elementi greci e latini non si mescolarono tra loro ed è quindi presumibile che quanto restava della popolazione greca si sia concentrato al di là del fiume Esaro, come del resto evidenzia il passo di Livio[32] che riferisce della grande distanza che ormai separava l'acropoli dalla città.

 

Il ricordo nostalgico di una grandezza perduta.
Di questa situazione che oramai relega la città nella dimensione della provincia romana, rimangono alcune testimonianze molto significative che, a riguardo, ci danno la possibilità di concludere il lungo percorso storico che abbiamo tentato di ricostruire. L'arrivo dei Romani e la loro presa di posizione, non poteva evitare di lasciare traccia nella tradizione di fondazione della città e nei suoi miti costitutivi. E' in questo senso che ritroviamo Enea al capo Lacinio, dove si sarebbe fermato lungo il suo viaggio, lasciando in dono una coppa di bronzo[33]. Analogamente alle situazioni già viste, l'interpolazione latina nella tradizione di fondazione della città è tesa a ribadire la legittima presenza dei Romani sul territorio, attraverso uno dei suoi mitici antenati, la cui figura ha una valenza funzionale alle trasformazioni operate dai Romani. Trasformazioni profonde, come possiamo ritenere proprio dai significati riconducibili a questa tradizione. I cambiamenti conseguenti all'avvento di Roma, rappresentati attraverso il coinvolgimento del santuario, trovano poi una significativa citazione in Livio a proposito di un atto di profanazione compiuto nel 173 a.C. dal censore romano Quinto Fulvio Flacco[34]. Per edificare il tempio della Fortuna Equestre in Roma, egli si sarebbe appropriato delle famose tegole di marmo che ricoprivano il tempio di Hera Lacinia, ma in seguito alle minacce del senato romano, le avrebbe fatte restituire. Lo smantellamento dell'autorità politica e religiosa della divinità e di conseguenza quella della comunità da essa tutelata, sono gli elementi cardine della rappresentazione fornitaci da Livio che, in ogni caso, riguarda oramai una realtà fortemente degradata. La stessa tradizione sottolinea, infatti, che anche ritornati in possesso delle tegole, i Crotoniati furono costretti a lasciarle sul terreno, visto che nella loro città non era stato possibile trovare artigiani in grado di rimetterle al proprio posto[35]. L'antico ruolo che il santuario aveva svolto, immutabile all'interno dell'organizzazione del territorio da parte della città, come sottintende il famoso prodigio riferito dalla tradizione[36] che voleva i venti e gli uragani incapaci di smuovere le ceneri accumulate sull'altare del tempio, era ormai irrimediabilmente perduto. Da un punto di vista letterario, una chiara visione della situazione ci è fornita da Strabone, che, descrivendo il viaggio costiero verso la città e citando quelle che un tempo erano state le famose città degli Achei, riferisce semplicemente che esse (tranne Taranto) non esistevano più[37]. Tale precisa e asciutta asserzione di Strabone ci consente di evidenziare che essa non era tanto riferita alla sopravvivenza delle città in quanto tali, ma al fatto che ai suoi occhi, nulla di quanto era possibile attendersi in ragione del loro passato era sopravvissuto al trascorrere del tempo. Su questa realtà ormai ombra della passata grandezza della città si soffermeranno in tanti, ponendo l'accento sul desolante presente e mettendolo a confronto con i fasti del suo grandioso passato. Dione Crisostomo[38] evidenzia la scomparsa della Crotone di un tempo, Valerio Massimo ricorre ai superlativi definendola, sempre al passato "opulentissima civitas", mentre Petronio[39] dice che essa era stata la prima città dell'Italia e che i Crotoniati, ricchi d'ogni bene, erano considerati come uno dei popoli più felici dell'Italia. Lo stesso autore ci fornisce, comunque, una facile interpretazione delle sue parole, quando, con intento moralistico, fa dire ad uno dei suoi personaggi che nella città " ... non si coltivano gli studi letterari, non c'è posto per l'eloquenza, non fruttano stima né l'onestà né i costumi timorati ...", ma che i Crotoniati si dividono oramai solo in truffati o truffatori. La componente retorica di questo filone di pensiero è rilevabile infine nelle parole di Aristosseno di Taranto[40] che in questo caso, riferendosi ai Poseidoniati oramai privi della loro identità greca, li descrive nell'atto di compiangersi, mentre si allontano dopo aver ricordato le antiche origini.
"Noi ci comportiamo come i Poseidonati che abitano sul golfo tirrenico. E' accaduto a questi di passare dalla loro condizione originaria di Greci a quella di barbari, essendo diventati Etruschi o Romani, di cambiare lingua ed altri costumi e di celebrare ancora oggi una sola festa greca; convenuti a questa richiamano alla memoria i nomi antichi e le antiche leggi, si compiangono l'un l'altro e dopo aver versato molte lacrime si allontanano."

 

La Magna Grecia.
L'ottica con la quale una certa corrente di pensiero ha guardato e continua purtroppo a guardare alla realtà delle città che i Greci fondarono in Italia, si basa fondamentalmente su di un'idea che è fortemente influenzata dal rapporto che esse ebbero con Roma e dal ruolo che quest'ultima, ad un certo punto, esercitò nei loro confronti. Ciò determina, di conseguenza, una valutazione distorta dell'esperienza cittadina dei Greci che, in questo caso, appare caratterizzata da uno scarso senso pratico, andando a costituire solo un'eredità che il pragmatismo romano avrebbe poi utilizzato per la realizzazione dell'impero. Spero, a questo punto, che gli argomenti trattati possano dimostrare la natura erronea di tale implicazione, che costituisce una deformazione alla quale non poco hanno contribuito aree di pensiero già consolidate nell'antichità e che possono essere ricondotte alla cultura romana. Ne è esempio la nascita del concetto di Magna Grecia, nel quale molti hanno voluto vedere il segno della magnificenza che già in epoche remote, sarebbe stata riconosciuta dagli stessi Greci alle città fondate in Italia. Come è stato pertinentemente messo in luce[41] si tratta invece di un concetto chiaramente estraneo alla cultura greca, per la quale non esistevano realtà nazionali che superassero quelle cittadine, e nella quale non è neanche immaginabile la contrapposizione tra una sorta di grecità maggiore a confronto di una di proporzioni minori. Senza contare che il concetto di Elleni (o di Greci) aveva una dimensione etnica e culturale ma non certamente politica. La pertinenza di questo concetto al pensiero romano ha comunque una radice più remota che non è estranea ad alcuni aspetti della stessa mentalità greca. In questo senso, può essere letta la nostalgia, con la quale, tanti intellettuali greci si espressero nei confronti della realtà arcaica delle colonie. Esse sono ricordate come vere e proprie culle di civiltà, nelle quali l'istituzione delle prime leggi, avrebbe determinato l'armoniosa convivenza tra gli uomini. A loro, come all'arcaismo di Sparta, fecero costante riferimento le più importanti correnti del pensiero filosofico greco, che cercarono di delineare i canoni di un'esperienza politica da consegnare agli uomini, per realizzare l'utopia di una società perfetta. A tale suggestione, non sfuggì certamente il mondo romano che, seppure riuscì ad immaginare e realizzare un impero di dimensioni polietniche, non ha potuto fare a meno di raccogliere i riferimenti ideologici e culturali che erano stati alla base dell'esperienza cittadina dei Greci e della sua stessa originaria dimensione di città stato. In questo senso l'influenza delle piccole città greche sul mondo romano fu certamente più rilevante di quella esercitata dal grande impero egiziano o da altre macro realtà dell'oriente asiatico, in virtù dell'impronta originaria che la dimensione cittadina dello stato aveva creato, dando una precisa mentalità all'homus occidentalis. Per tale motivo non appare difficile comprendere come all'interno del mondo romano qualche corrente di pensiero abbia voluto rifarsi ad esperienze ritenute originarie, elaborando un concetto come quello di Magna Grecia che per i significati che è possibile mettere in luce, rappresenta l'indice di una mentalità che è giunta fino a noi. Essa fa riferimento ad un cardine della nostra cultura e ci rimanda ad un tempo, al quale siamo soliti vagheggiare il ricordo di un benessere lontano, che delinea un'antichità di sogno mai esistita. Tale esigenza implica poi, di riconoscere in questo passato remoto un ordine primordiale, un'antica sapienza, capace di soddisfare i dubbi e le incertezze umane. In questo senso, può essere letto l'interesse passato e presente verso le figure più arcaiche della sapienza o comunque, verso tutte le dottrine più remote. La natura speculativa di tale interesse, risulta chiaro quando si pensa che ad esso, non ne corrisponde quasi mai, uno analogo per il contesto sociale nel quale questi uomini veramente vissero ed elaborarono il loro pensiero. La dimensione nella quale sono relegati è rigidamente incollata al trascendente. Per rimanere nell'ambito delle situazioni affrontate, si consideri, per esempio, la tradizione che voleva il re di Roma Numa Pompilio allievo di Pitagora, contro la quale è possibile registrare la netta presa di posizione di Tito Livio[42], lo storico romano che assieme a Polibio (a sua volta utilizzato dal precedente), rappresenta la nostra principale fonte di informazione sulle vicende che determinarono l'affermazione del mondo romano sulla realtà delle città greche d'occidente. Seppure tra i due personaggi esisteva una notevole incompatibilità cronologica, evidenziata anche da Cicerone[43] è facile rilevare come nei passi citati, Livio si soffermi sull'argomento per sottolineare l'indipendenza culturale di Roma dal mondo greco, rigettando una tradizione che, al di fuori di ogni plausibile verità storica, nasceva dalla necessità di ricostruire l'origine del proprio grandioso presente, attorno a figure eccellenti del passato. Un caso analogo a quello dei Neoplatonici, con il loro tentativo di costituire un'idea politica rispolverando antiche filosofie pitagoriche, al quale possiamo ricondurre la nostra stessa smania, che ci spinge a cercare in un passato remoto ed indecifrabile, la chiave di lettura della realtà moderna, che spesso ci si presenta altrettanto ignota ed incomprensibile. Credo che sia l'incapacità di sottrarci a quest'impronta culturale che ci spinge a cercare rifugio nel tempo, alludendo ad un'armonia inverosimile, nella quale ci piace continuare a credere e che usiamo come unico mezzo, per giustificare l'inevitabile fallimento, di un grandioso presente necessariamente imperfetto.

[1] N. Sculco, Ricordi sugli Avanzi di Cotrone, ed. Pirozzi 1905.
[2] P. Attianese, op. cit. p. 186.
[3] Livio VIII, 24, 1-18.
[4] Strab. VI, 1, 5.
[5] Giust. XII, 2, 3 e sgg..
[6] Diod. XIX, 3.
[7] Diod. XIX, 4.
[8] Diod. XIX, 10.
[9] Diod. XXI, 4.
[10] Zonara, VIII, 6PI, 378; Frontino, Stratag., III 6, 4.
[11] Zonara, VIII 6PI, 379 D.
[12] A questo periodo potrebbero essere fatte risalire alcune serie di monete che non unanimemente sono attribuite alla città. P. Attianese, op.cit. p. 209.
[13] Livio XXIV, 3, 1-3.
[14] Livio XXII, 61.
[15] Livio XXVII, 25; XXIX, 36.
[16] Livio XXIII, 30.
[17] Livio XXIV, 2.
[18] Livio XXIV, 2, 3.
[19] Livio XXIII, 30; Polibio, fr. VIII.
[20] Livio XXIII, 20.
[21] Cicerone, De Div., I, 24, 48.
[22] In quest'area, probabilmente, già in precedenza Annibale aveva posto i suoi accampamenti invernali (Plinio, N. Hist., III 95).
[23] Appiano, Guerra Annib., VII 8, 54.
[24] Appiano, Guerra Annib., VII 9, 57.
[25] Livio, Per., XXVIII 20; St. di Roma, XXIX 36.
[26] Livio XXX, 19.
[27] Livio XXX, 20.
[28] Livio XXX, 20.
[29] Livio XXVIII, 46; Polibio III, 33.
[30] Livio XXXIV, 45.
[31] Livio XXXIV, 45.
[32] Livio XXIV, 3.
[33] Dion. di Alic. 1, 51, 3.
[34] Livio XLII, 3.
[35] Val. Mass. I, 1, 209; Livio XLII, 3.
[36] Val. Mass. I, 8, ext. 18; Plinio, N. Hist., II, 240; Livio XXIV, 3.
[37] Strab. VI, 1, 11.
[38] Dione Cris. 33, 25.
[39] Petronio, Saty., 116.
[40] Aristoss. apud Ateneo, XIV, 632a.
[41] M. Napoli, op. cit. p. 27 e sgg.
[42] Livio I, 18; XL, 29.
[43] Cicerone, De rep., II, 15.