L'arte bianca
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SANTA SEVERINA «L'olio prezioso e l'urgenza del cuore». È questo il tema del messaggio pasquale lanciato dal nuovo arcivescovo dell'Arcidiocesi, Alberto Torriani, durante la celebrazione della sua prima Messa crismale.

Anche quest'anno, vista la chiusura per restauro della Basilica cattedrale di Crotone, è stata la Concattedrale di Sant'Anastasia, nel borgo di Santa Severina, ad accogliere la solenne concelebrazione che introduce la comunità cristiana nel cuore dell'anno liturgico, il “Triduo pasquale”. 

L'intero presbiterio diocesano, arricchito da tanti sacerdoti ospiti delle varie parrocchie per dare una mano in occasione della Pasqua, ha preso posto nella navata centrale dell'antica chiesa di Santa Severina.

L'arcivescovo di Crotone-Santa Severina, monsignor Alberto Torriani, per la prima volta, ha presieduto la solenne celebrazione, durante la quale ha benedetto gli oli sacri - l'olio degli infermi con cui viene amministrato il sacramento dell'unzione degli infermi e l'olio dei catecumeni, utilizzato durante la celebrazione dei battesimi - e consacrato l'olio del crisma, la mistura di olio e balsamo profumato con cui vengono unti i battezzati e consacrati i vescovi e i presbiteri.

L'omelia dell'arcivescovo, come è consuetudine in questa celebrazione, è incentrata sul sacerdozio di Gesù, il Cristo, l'Unto, inviato per farci conoscere l'amore di Dio. Al suo sacerdozio partecipano tutti i battezzati, chiamati ad esprimere con la vita il messaggio evangelico, e in modo particolare coloro che hanno ricevuto il sacramento del sacerdozio ministeriale - i vescovi e i presbiteri - per essere a servizio di tutti i battezzati, a servizio della Parola, dell'eucaristia e della comunione ecclesiale. 

Ecco il testo integrale dell'omelia di monsignor Torriani:

Carissimi, Carissime,
oggi intuisco aria di curiosità e di emozione in questa concattedrale. L'emozione è la mia che presiedo come vescovo, a meno di due mesi dalla mia consacrazione episcopale, questa Messa Crismale. Curiosità perché in questa celebrazione che vede radunato soprattutto tutto il presbiterio della diocesi, si attendono con significativa attenzione le parole del Vescovo in un celebrazione particolare come quella di oggi. Noi siamo radunati attorno all'altare per celebrare il cuore del nostro sacerdozio che non è un ministero solitario, non è una funzione da eseguire, ma un dono ricevuto insieme, una chiamata condivisa, è olio prezioso versato sul capo e che scende sull'orlo della veste (Sal 133). Così formulavo i miei saluti e auguri durante l'incontro con tutti voi nei giorni del mio ingresso in Diocesi. Con quell'olio profumato, non visibile, ma percepibile all'olfatto e che rende benedizione ogni respiro. Siamo qui come presbiteri, uniti nel crisma che ci ha consacrati, e spero anche desiderosi di rinnovare le nostre promesse: non come gesto rituale, ma come atto d'amore, come segno di quel «mi ha mandato» che ciascuno pronuncia con la vita tutti i giorni, nelle comunità o nei contesi in cui è stato mandato dal Vescovo. 
 

Vorrei con voi riprendere quei cinque verbi “vedere, compatire, accogliere, rialzare, camminare” che stanno orientando i miei primi passi da vescovo e che ho pronunciato nell'omelia dell'inizio del mio ministero tra voi. Li riprendo oggi, coniugandoli alla vita di ciascuno presbitero o diacono, consacrato o laico, perché dentro questi verbi vibra il cuore stesso del Vangelo e del nostro essere discepoli prima e pastori poi, presi a servizio nella Chiesa. 

Il primo verbo era vedere: Il profeta Isaia dice: «Lo Spirito del Signore è su di me... mi ha mandato a portare il lieto annuncio». E per farlo, la prima cosa è vedere. Vedere le persone e non i numeri. Vedere i volti e non solo i ruoli. Vedere i poveri, come poveri realmente e non come destinatari di un gesto, ma come compagni di strada perché rivelatori del Regno. Vedere è la prima forma di amore. E per noi preti, per voi diaconi, per tutti i consacrati e le consacrate in particolare, vedere vuol dire guardare a quella porzione di popolo che ci è affidato con lo sguardo di Cristo. Vuol dire anche saperci guardare tra noi, come tra fratelli che hanno fatto della sequela di Gesù e dell'obbedienza al suo Vangelo la ragione ultima del loro esistere. Con uno sguardo che non pesa ma solleva, che non classifica ma custodisce. Uno sguardo che non si accontenta della superficie, ma sa cogliere la sete, il bisogno, il germe nascosto della grazia. Nella nostra vita ministeriale e anche in quella dei confratelli. Chiediamo oggi al Signore occhi pasquali, occhi di luce e di Vangelo, perché chi non sa più vedere così, smette di annunciare.

Compatire, cioè patire-con. Isaia continua: «a fasciare le piaghe dei cuori spezzati». Il sacerdote, il diacono, il consacrato o la consacrata, non è un esperto delle cose di Dio, pur se esse fossero colorate o con i pizzi, profumate o preziose. Il sacerdote, il consacrato/a è un uomo o una donna attraversato dalle ferite sue e degli uomini e delle donne di questo tempo, dalle comunità o dai gruppi di questo territorio; ed è capace di abitarle, di restare accanto, di stare sotto la croce senza voltare lo sguardo altrove. Anche il vescovo ha le sue ferite: affettive, ministeriali, pastorali, emotive. Occorre imparare a dare il nome a queste ferite, a guardarle con sincerità e verità, a farle diventare luoghi della grazia, lembi di risurrezione. Questo lavoro non lo si fa da soli, ma sempre con una guida capace di verità e discernimento. Anche noi pastori abbiamo bisogno di essere guidati personalmente: vi invito a custodire e, se necessario, riprendere in mano i momenti personali della direzione spirituale e della confessione sacramentale. Il ministero senza verità diventa applicazione. L'esercizio sincero della consegna personale apre alla Grazia dello Spirito che è capace di verità e di libertà per ciascuno di noi: solo a queste condizioni si può essere felici di essere preti. In questi primi giorni ho visitato alcuni confratelli anziani e malati: tutti mi hanno confidato la loro felicità di essere preti, di aver donato la vita per la Chiesa e per il Vangelo. Per tutti loro un senso di libertà interiore e di consegna grata che è testimonianza viva per ciascuno di noi. Compatire è la vera grammatica della prossimità. E lo è anche nella nostra fraternità sacerdotale: ci sono stanchezze che non si vedono, solitudini che nessuno nomina, malinconie che pesano come pietre. Eppure siamo chiamati non a giudicarci, ma a sostenerci. A non lasciarci soli. A consolarci con la compassione del Maestro. Il ministero vissuto senza compassione diventa mestiere. E un prete senza cuore rischia di diventare burocrate della grazia. Noi vogliamo essere invece artigiani di consolazione e di speranza, nella vita del popolo e nella vita dei fratelli. 

Accogliere. «A proclamare la libertà ai prigionieri» scrive Isaia. Allora accogliere è molto più che ricevere: è liberare, è restituire spazio, è rimettere in piedi. Le nostre comunità hanno bisogno di presbiteri con le braccia larghe, non solo per benedire, ma per far sentire che il Signore ama senza misura. L'olio che oggi benediciamo ha il profumo dell'accoglienza: unge le fronti, le mani, i corpi feriti... e dice a tutti che non c'è distanza che Dio non voglia colmare. Ma è necessario che ci siano presbiteri anche dalle braccia muscolose; che non si spaventino della fatica anche fisica, che esercitano l'arte della pazienza instancabile e del lavoro solerte e fecondo. Accogliere non è solo esercizio di braccia ma modalità dipensiero: un pensare accogliente è quello che è capace di discernimento, di obbedienza prima ancora che al Vescovo, alla Vita (con la V maiuscola), all'esistenza trasfigurata dalla grazia dell'unzione. Questo esercizio innanzitutto è chiamata e appello anche nel nostro presbiterio: anche tra noi, accoglierci nella verità, nelle differenze, nelle fragilità. Una fraternità sacerdotale che accoglie è il segno più credibile del nostro essere discepoli. Che non vuol dire essere amici ma piuttosto consci che ogni gesto di annuncio è sempre un'azione di Chiesa. Non c'è forza pastorale più grande della comunione vissuta: tra Parrocchie, tra movimenti, tra esperienze ecclesiali frutto della creatività dello Spirito e l'Intera Diocesi. Le iniziative diocesane, in ogni ambito pastorale, sono il segno visibile di questa comunione e custodiscono dentro di sé la carica della profezia, oltre ogni particolarismo di appartenenze di territori o di esperienze. Una Chiesa così, capace di comunione dei carismi, sarà una Chiesa a cui guardare. Se ne accorgerà subito quello che viene chiamato il popolo santo di Dio. La ricerca della nostra santità sarà il servizio più vero per la santità della nostra gente. Lavoriamo, preghiamo, costruiamo una fraternità vera, concreta, che non è sentimentalismo ma personale scelta di stile: di rispetto, di parola data, di attenzione reciproca. Una fraternità dove anche l'esercizio dell'obbedienza intelligente trova il suo naturale esito e il suo quotidiano respiro. 

Rialzare: è il verbo della risurrezione. Isaia ci dice: «a consolare gli afflitti... a dare una corona invece della cenere». Quante volte, nella vita della gente, il nostro compito è credere per loro quando non ce la fanno più a credere. Rialzare chi ha sbagliato, chi si è perduto, chi ha smesso di sperare. Ma anche — con grande umiltà — rialzare tra noi chi è scoraggiato, chi si sente lasciato ai margini, chi ha perso il gusto del Vangelo. Un prete che rialza è un uomo che crede nella potenza della misericordia. E la misericordia è ciò che ci ha fatto preti. Nessuno di noi ha guadagnato questa vocazione: l'abbiamo ricevuta! E possiamo solo raccontarla rialzando ogni giorno chi ci è affidato. Solo così saremo fedeli al dono e non burocrati nel ministero. Essere preti non significa fare le cose da prete, ma vivere in pienezza la nostra umanità redenta. Come vivo allora la mia umanità? Ricordiamoci che la nostra vita è donata, vigiliamo allora su tutte quelle forme che tradiscono e rinnegano il dono della nostra vocazione. Sono tanti i modi – più o meno subdoli – in cui la nostra vita da consacrati viene defigurata: quando alla comunione preferiamo la chiacchiera o il giudizio reciproco; quando il desiderio di santità personale cede il passo a logiche mondane di possesso o accaparramento; quando la vivacità e creatività intellettuale è soffocata dal già visto o da gesti della tradizione che non sono più capaci di rendere ragione della speranza che è in noi. Quando all'esercizio fecondo e faticoso del pensiero si preferisce la sterilità della pigrizia e della superficialità. 

Ultimo verbo: camminare. Gesù, nella sinagoga, riavvolge il rotolo, lo riconsegna, e inizia il suo cammino, la sua vita pubblica. Anche per noi il Vangelo non è un discorso da tenere, ma una strada da percorrere insieme ad altri Camminare significa essere in uscita, non vivere di ricordi, non stare fermi nel «si è sempre fatto così». Camminare insieme, come presbiterio, lo ripeto è testimonianza del Regno. Non è scontato camminare insieme. Lo sappiamo. I ritmi, le attese, le sensibilità sono diverse. Ma il camminare insieme è la vera postura del ministero: non da soli, non avanti, non dietro... insieme. Condividendo sogni, portando pesi, cercando la volontà di Dio in fraternità nella capacità di condividere carismi e ricchezze umane e spirituali. Fratelli, oggi rinnoviamo le promesse della nostra ordinazione. Non parole da dire, ma vite da riconsegnare per essere sempre di più uomini dello Spirito, con lo sguardo che vede, il cuore che patisce, le mani che accolgono, le parole che rialzano, i piedi che camminano. E lavoriamo, impegniamoci, desideriamo che il nostro presbiterio possa essere la forma della nostra fraternità sacerdotale: vera, abitata, custodita! E non sia un accessorio del ministero, ma uno dei sui fondamenti più profondi. Perché il crisma che ci ha unto è l'olio della comunione, volto di Cristo in mezzo a noi.

«Oggi si è compiuta questa Scrittura» dice Gesù. E oggi, in mezzo a questa nostra Chiesa in cammino, può compiersi davvero — se ciascuno di noi, con gioia, con umiltà, con libertà, dice ancora: eccomi! Ecco allora che quella poesia di cui vi feci dono al PalaMilone, e che parlava di inizi, e di cui un passo diceva: sarà il bello/di cominciare/con tutta l'energia rappresa/ancora intatta in gocce/tutta sospesa sopra il fare nostro; non è sfoggio di cultura o captazione di benevolenza, ma vero e proprio esercizio di speranza pasquale come al mattino di quel primo giorno della settimana, dove le donne di vangelo, spinte da un affetto profondo, da una devozione concreta, da una amore che non si rassegna, sentono l'urgenza del cuore che le rimette in cammino, in un mondo che sta ricominciando da capo in una goccia di rugiada.