L'armistizio dei clan al Nord e l'ascesa del boss che si fece baciare i piedi
È il quadro tracciato sulle risultanze dell'inchiesta "Ten" che arriva dieci anni dopo Aemilia: i clan cutresi continuano a imperversare ed emerge la figura di Giuseppe Arabia

REGGIO EMILIA «Quella che è stata colpita oggi è una sorta di unità organizzativa perfettamente inserita nella cosca di 'ndrangheta radicata e tradizionalmente presente a Reggio Emilia che ha un suo nucleo familiare genetico e vede nella sua composizione, da un lato, il superamento di vecchie contrapposizioni che c'erano state in passato tra i Dragone e i Grande Aracri e, dall'altro, evidenzia una capacità rigenerativa della cosca che non solo continua ad essere presente, ma arruola nuove leve e ne coltiva la “formazione mafiosa”». È il quadro che traccia, durante un incontro con la stampa, dal procuratore di Bologna facente funzioni, Francesco Caleca, dell'operazione “Ten”, coordinata dalla Direzione antimafia di Bologna e messa in campo a Reggio Emilia a dieci anni dal maxi processo Aemilia contro le cosche calabresi, che rivelò il profondo radicamento della 'ndrangheta nel Reggiano.

La “pax mafiosa” al Nord a partire dal Terzo millennio
Dalle indagini, è emerso una sorta di armistizio tra le famiglie di 'ndrangheta che fino ai primi anni del 2000 hanno ingaggiato una lotta sanguinosa e senza quartiere per il predominio. L'altro aspetto venuto alla luce ed evidenziato da Caleca, «è la smentita del fatto che quando si parla di mafie al Nord, si dice abbiano perso quell'aspetto militare, truce e violento per diventare imprenditrici. Questa inchiesta dimostra come il cambiamento sia soltanto epidermico, perché la sostanza profonda della capacità intimidatoria permane, venendo realizzata concretamente».
Inoltre, «è stata accertata una disponibilità di armi. Quindi una serie di dati preoccupanti, ma è da sottolineare come anche l'attenzione degli inquirenti non ha mai subito flessioni». Un ritorno dunque ai metodi tradizionali da parte di un nuovo gruppo mafioso che prediligeva l'uso della violenza e delle armi.
L'inchiesta vede in totale 20 indagati e cinque persone arrestate per associazione a delinquere di stampo mafioso. «Il nome dell'operazione, “Ten”, richiama i dieci anni del processo Aemilia - spiega il sostituto procuratore Beatrice Ronchi - e l'epoca della sanguinaria guerra tra i Grande Aracri e i Dragone che si è imposta fino a metà degli anni 2000, consentendo oggi di fotografare, come caratteri del sodalizio mafioso, una sorta di mix tra la 'ndrangheta tradizionale militare e quella imprenditoriale».
Il gruppo al centro dell'inchiesta ha compiuto «azioni punitive, vendicative, ritorsive, intimidatorie e un importante disponibilità di armi, il tutto sempre condito dal vortice delle false fatturazioni», aggiunge Ronchi. «In Emilia le antiche contrapposizioni che avevano portato alla guerra sono state messe da parte e superate per seguire l'obiettivo comune e principale della struttura mafiosa che è quello dell'arricchimento massimo e comune, al di là dei rancori, delle antipatie e dei vecchi conflitti», conclude il pm.
«Anche le nuove generazioni - sottolinea il tenente colonnello Maria Concetta Di Domenica della Guardia di finanza di Reggio Emilia - fanno dell'accaparramento di denaro il loro obiettivo, superando per raggiungerlo gli steccati familiari e persino etnici».

Vittima di estorsione costretta baciare piedi a boss
Giuseppe Arabia, 59 anni, già condannato con sentenza passata in giudicato per associazione a delinquere di stampo mafioso, «non è mai uscito dalla 'ndrangheta e, praticamente da una vita, agisce entro la temibile organizzazione mafiosa con un ruolo apicale sempre più importante, anche tenuto conto degli arresti, delle condanne e delle carcerazioni ai vertici della cosca». È quanto scrive il gip del tribunale di Bologna, Alberto Ziroldi, nell'ordinanza di misure cautelari relativa all'operazione “Ten”.

Nell'ordinanza, il gip sottolinea come Giuseppe Arabia, insieme a un altro degli arrestati, Salvatore Messina, «in concorso morale e materiale tra loro e con un terzo soggetto di nome Antonio» ha «minacciato gravemente Giuseppe Ruggieri e la persona che lo accompagnava, puntando loro contro tre armi».
Ruggeri, spiega il gip, era, «“reo” di aver reso nel dibattimento “Grande Drago”, in cui Arabia era imputato, una testimonianza all'udienza del 9 ottobre 2007 come persona offesa di una tentata estorsione, perpetrata» dal “boss” «poi condannato in via definitiva». Intercettato, Giuseppe Arabia racconta l'episodio al suo interlocutore, dicendogli: «Li ho fatti pisciare addosso quando li ho bloccati, con tre armi... con tre armi puntate addosso... addosso a loro». In più - prosegue il gip - «ha costretto Ruggeri a scusarsi per quanto fatto al processo, scuse che avanzava inginocchiandosi e baciando i piedi a Giuseppe Arabia».
«Mi chiedeva perdono e mi baciava i piedi», dirà, infatti, Arabia intercettato. Il gip Ziroldi indica nell'ordinanza, inoltre, l'aggravante «dell'essere la minaccia stata commessa con armi» e «di avere agito per agevolare l'attività dell'associazione di stampo mafioso denominata 'ndrangheta e in particolare del sodalizio 'ndranghetistico emiliano».