L'arte bianca
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CROTONE Riceviamo e pubblichiamo una riflessione del presidente della Camera penale di Crotone, Aldo Truncè, sul pensiero di papa Francesco e il ruolo dell'avvocato nel panorama della giustizia italiana (e non solo). 

Con la scomparsa di Papa Francesco il mondo perde una voce potente e compassionevole, un faro di speranza ed un instancabile difensore della sacralità della persona.

Papa Francesco, con la sua inconfondibile empatia, ha sempre guardato alla nostra professione con occhi di comprensione e rispetto, ricordandoci che l'avvocato non è un mero tecnico della legge, ma un artigiano di giustizia, un volto umano di un sistema che, talvolta, rischia di apparire distante e inaccessibile.

"Siate difensori dei diritti, specialmente di chi non ha voce", ci ha esortato il Pontefice. Un appello che, per noi avvocati penalisti, assume una risonanza particolare. Siamo sovente investiti della difesa di individui relegati ai confini del tessuto sociale, soggetti stigmatizzati come reietti, che spesso, animati da intrinseca fragilità, pusillanimità e talora da disperazione abissale, compiono scelte aberranti.

La nostra missione non si esaurisce nella ricerca della migliore difesa tecnica, ma si dispiega nella tutela indefettibile della dignità intrinseca della persona e nella riaffermazione dell’essenza umana di chi è al centro del processo, o di chi sta già scontando la sua pena.

Chi è in cella, isolato dalla società, conduce la sua vita come se fosse ai margini del mondo. Conosciamo bene la realtà del carcere, i volti segnati dalla sofferenza, le storie di umanità ferita.

Le esortazioni di Papa Francesco, reiterate e vibranti, che ci hanno incessantemente richiamato all'impegno di schierarci al fianco degli ultimi, degli emarginati, di coloro che la società tende a relegare ai confini, si traducono per noi, avvocati, in un mandato deontologico irrinunciabile.

Questo mandato diventa azione quotidiana, una prassi che affronta fragilità, disperazioni silenziose ed ingiustizie striscianti.

Il monito del Pontefice “nessuno deve essere abbandonato" non è per noi un'astrazione teologica, ma una bussola etica che orienta ogni nostra scelta, ogni nostra strategia difensiva.

Esso ci impone di non distogliere lo sguardo dalle periferie esistenziali, di non ignorare le grida di aiuto che si levano dalle celle sovraffollate, dalle aule di tribunale in cui si consumano drammi umani, dalle strade in cui vagano gli esclusi.

“Stare dalla parte degli ultimi”, significa per noi, avvocati, essere capaci di ascoltare, comprendere, accogliere. Significa non limitarci alla mera apologia dei nostri assistiti che portiamo avanti quotidianamente nei Tribunali, ma impegnarci in un'opera di ricostruzione della dignità, di riaffermazione della centralità della persona, di riabilitazione sociale.

Significa, in ultima analisi, restituire voce a chi non ne ha, speranza a chi l'ha perduta, umanità a chi è stato spogliato di essa. La sua voce si è levata contro l'abuso di potere e la mercificazione della giustizia, ricordandoci che il nostro compito è servire la verità e non gli interessi di parte, stando ben attenti a non piegarci a logiche economiche e del profitto, nell’esercizio della nostra professione.

La sua profonda sensibilità per i detenuti ha segnato un'epoca, imprimendo un'impronta indelebile nella coscienza collettiva. "Nessuna cella è tanto isolata da escludere il Signore", ha affermato Papa Francesco, ricordando con forza che l'inviolabilità della persona, intesa nella sua integralità di corpo e spirito, non può essere calpestata, neanche dietro le sbarre.

Quest’affermazione, lungi dall'essere una mera consolazione spirituale, si traduce in un imperativo etico e giuridico: riconoscere e tutelare la dignità di ogni essere umano, anche di chi ha commesso errori gravi. La sua condanna della pena come strumento di tortura, e la sua definizione dell'ergastolo come "pena di morte nascosta" che annienta la speranza, rivelano una profonda comprensione della dimensione umana del dolore e della sofferenza.

In questo contesto, il gesto simbolico della lavanda dei piedi, compiuto ogni Giovedì Santo - ma non, con suo sommo dispiacere, nell’ultima ricorrenza pasquale - assume una rilevanza straordinaria. Questo rito, che rievoca l'atto di umiltà e servizio compiuto da Gesù nei confronti dei suoi discepoli, trascende la mera dimensione liturgica, per assumere una carica simbolica profonda, soprattutto in ambito penitenziale.

La lavanda dei piedi rappresenta un atto di purificazione, di accoglienza, di riconoscimento della fragilità umana e di volontà di redenzione. Nel contesto carcerario, questo gesto assume una valenza ancora più intensa: lavare i piedi dei detenuti significa abbattere le barriere dell'isolamento e della stigmatizzazione, prostrarsi, inchinarsi e genuflettersi a loro, con un simbolismo potentissimo di riscatto.

Papa Francesco, con la sua profonda sensibilità, ha saputo cogliere l’energia metaforica di questo gesto, traducendolo in un messaggio di speranza e di misericordia per i reclusi, in armonia con il gesto concreto del lascito di tutti i suoi averi in favore dei detenuti. La sua voce continuerà a risuonare nelle celle e nelle aule di tribunale, ricordandoci che la giustizia, per essere veramente tale, deve essere sempre accompagnata dalla compassione.

Sull'eco di queste parole, noi artigiani di giustizia, continueremo il nostro cammino, perché anche nell'ombra più fitta ogni essere umano custodisce la scintilla di una possibile rinascita.
Aldo Truncè - avvocato